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«Non ho fatto in tempo», disse Pitt mentre Levant entrava correndo. «Ha trasmesso un messaggio prima che potessi fermarla.»

Levant valutò la situazione con una rapida occhiata. Poi si voltò e chiamò a gran voce: «Sergente Chauvel!»

«Signore!» Il sergente era così infagottato nella tuta da combattimento che era quasi impossibile capire che era una donna.

«Si metta alla radio», le ordinò Levant in francese, «dica ai maliani che l’allarme è stato causato da un corto circuito. Spieghi che non è un’emergenza. E, per amor di Dio, li dissuada dall’intraprendere un’azione di risposta.»

«Sì, signore», disse il sergente prima di sbarazzare la sedia con un calcio e di mettersi alla radio.

«L’ufficio di O’Bannion è in fondo al corridoio», spiegò Pitt. Passò accanto a Levant e si avviò. Non si fermò prima di dare una spallata alla porta e di piombare nell’anticamera.

L’impiegata dagli occhi grigiovioletti e dai lunghissimi capelli era alla scrivania e stringeva con entrambe le mani una pistola automatica. Lo slancio trascinò Pitt attraverso la stanza e contro la scrivania. Urtò la donna e finì con lei sul pavimento coperto dalla moquette blu: ma l’impiegata ebbe il tempo di sparargli due colpi nel giubbotto antiproiettile.

Pitt ebbe la sensazione di essere stato centrato per due volte al petto da un maglio. Rimase senza fiato ma non si fermò. La donna cercò di districarsi mentre urlava in una lingua incomprensibile frasi che, Pitt ne era sicuro, dovevano essere oscenità. Sparò un altro colpo che gli sfiorò la spalla, rimbalzando contro il soffitto di roccia, e si piantò in un quadro prima che Pitt riuscisse a impadronirsi dell’arma. Poi rimise in piedi la donna con uno strattone e la scagliò su un divano.

Si voltò, passò fra le statue bronzee dei tuareg e provò ad azionare la maniglia dell’ufficio di O’Bannion. La porta era chiusa a chiave. Alzò la pistola sottratta all’impiegata, l’appoggiò alla serratura e premette tre volte il grilletto. Lo sparo echeggiò, assordante: ma ormai non era più necessario agire furtivamente. Si accostò alla parete e sospinse la porta con un piede.

O’Bannion era appoggiato alla scrivania, con le mani tese sulla superficie. Sembrava in attesa di ricevere il dirigente di una società rivale. Gli occhi che brillavano attraverso il litham avevano un’espressione altezzosa e senza traccia di paura, ma tradirono lo sbalordimento quando Pitt entrò e si tolse l’elmetto.

«Spero di non essere in ritardo per la cena, O’Bannion. Se non ricordo male, mi aveva invitato.»

«Lei!» sibilò O’Bannion. La parte del volto visibile intorno agli occhi impallidì di colpo.

«Sono tornato», disse Pitt con un mezzo sorriso. «E ho portato alcuni amici che nutrono scarsissima simpatia per i sadici che schiavizzano e uccidono le donne e i bambini.»

«Dovrebbe essere morto. Nessuno avrebbe potuto sopravvivere attraversando il deserto senza una provvista d’acqua.»

«Giordino e io non siamo morti.»

«Uno degli aerei del generale Kazim ha trovato il camion rovesciato in un uadi a ovest della pista Transahariana. Non è possibile che l’abbiate raggiunta a piedi.»

«E la guardia che avevamo legato al volante?»

«Era viva. Ma l’abbiamo uccisa perché vi aveva permesso di fuggire.»

«La vita umana non ha molto valore da queste parti.»

Gli occhi di O’Bannion non avevano più un’espressione sbalordita, ma non tradivano ancora la paura. «Siete venuti per salvare i vostri? O per rubare l’oro?»

Pitt lo fissò. «La prima ipotesi è quella esatta. E abbiamo intenzione di mettere definitivamente fuori gioco lei e i suoi complici.»

«Avete invaso uno Stato sovrano. Non avete alcun diritto nel Mali, e non avete giurisdizione su di me e sulla miniera.»

«Mio Dio! Mi sta facendo una predica sulla giurisdizione? E i diritti di tutti coloro che ha schiavizzato e assassinato?»

O’Bannion alzò le spalle. «Il generale Kazim li avrebbe fatti giustiziare comunque.»

«Che cosa le vietava di trattarli umanamente?» chiese Pitt.

«Tebezza non è una località di villeggiatura o un centro termale. Siamo qui per estrarre l’oro.»

«Per l’interesse suo, di Massarde e di Kazim.»

«Sì.» O’Bannion annuì. «Abbiamo finalità mercenarie. E con questo?»

L’atteggiamento freddo e spietato aprì una diga nell’animo di Pitt e scatenò le immagini mentali delle sofferenze subite da innumerevoli uomini, donne e bambini, le immagini dei cadaveri accatastati nella cripta, di Melika che percuoteva le vittime con la cinghia insanguinata, il pensiero che tre uomini dominati dall’avidità erano responsabili di massacri indicibili. Si avvicinò a O’Bannion e colpì con il calcio del mitra la parte del litham color indaco che gli copriva la bocca.

Per un lungo momento rimase a guardare l’ingegnere irlandese vestito come un nomade del deserto che giaceva sulla moquette mentre il sangue filtrava dalla stoffa del copricapo. Imprecò furiosamente, quindi se lo issò sulla spalla. Nel corridoio incontrò Levant.

«È O’Bannion?» chiese il colonnello.

Pitt annuì. «Ha avuto un incidente.»

«Si vede.»

«Com’è la situazione?»

«L’unità quattro ha occupato i livelli di recupero del minerale; la due e la tre incontrano poca resistenza da parte delle guardie. Sembra che siano abituati a picchiare la gente indifesa più che a combattere i professionisti.»

«L’ascensore dei VIP per raggiungere i livelli della miniera è da questa parte», disse Pitt, avviandosi nel corridoio.

L’ascensore cromato era stato abbandonato dall’operatore; Pitt, Levant e i membri dell’unità uno che sorvegliavano gli ingegneri e gli impiegati scesero al livello principale. Uscirono e si avvicinarono alla porta di ferro che pendeva dai cardini con la serratura sfondata dall’esplosione della dinamite.

«Qualcuno ci ha preceduti», mormorò Levant.

«L’abbiamo fatta saltare Giordino e io quando siamo fuggiti», spiegò Pitt.

«Sembra che non abbiano provveduto a ripararla.»

Nel pozzo riverberavano i rumori di colpi d’arma da fuoco che provenivano dalle viscere della miniera. Pitt caricò O’Bannion, ancora privo di sensi, sulla spalla di un robusto commando e si lanciò in direzione della caverna dove erano tenuti i prigionieri.

Raggiunsero la camera centrale senza trovare resistenza e s’incontrarono con alcuni membri dell’unità due che stavano disarmando un gruppo di guardie di O’Bannion, con le mani intrecciate dietro la nuca e l’aria impaurita. Giordino e due uomini della squadra avevano fatto saltare la serratura e si appoggiavano contro la grande porta di ferro della segreta. Pembroke-Smythe vide Levant e accorse a fare rapporto.

«Abbiamo catturato sedici guardie, colonnello. Un paio sono scappate nel pozzo. Sette hanno commesso l’errore di resistere e sono morte. Noi abbiamo due feriti, ma non sono gravi.»

«Dobbiamo affrettarci», disse Levant. «Ho paura che abbiano fatto in tempo a dare l’allarme prima che interrompessimo la comunicazione.»

Pitt si affiancò a Giordino e lo aiutò a spingere la porta. Giordino si voltò a guardarlo.

«Ti sei deciso a comparire, eh?»

«Mi ero fermato a far due chiacchiere con O’Bannion.»

«E adesso ha bisogno di un medico o di un impresario delle pompe funebri?»

«Di un dentista», rispose Pitt.

«Hai visto Melika?»

«Non era negli uffici degli ingegneri.»

«La troverò», promise Giordino rabbiosamente. «Quella spetta a me.»

La porta si spalancò e la squadra entrò nella caverna. Pitt e Giorduio sapevano per esperienza ciò che li attendeva, ma lo spettacolo li sconvolse comunque. I loro compagni impallidirono nel sentire il lezzo e nel vedere le sofferenze incredibili che si offrivano al loro sguardo. Persino Levant e Pembroke-Smythe rimasero immobili per un momento, inorriditi, prima di entrare.