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«Mio Dio», mormorò il capitano. «Mi sembra Auschwitz o Dachau.»

Pitt corse tra i prigionieri storditi che la disperazione e la fame avevano ridotto a scheletri ambulanti. Trovò il dottor Hopper seduto su una cuccetta, a occhi sbarrati, con gli indumenti sudici che pendevano sul corpo devastato dalla fatica e dalla denutrizione. Sorrise, si alzò con uno sforzo e abbracciò Pitt.

«Grazie a Dio, ce l’avete fatta. È un miracolo.»

«Mi dispiace di averci messo tanto tempo», disse Pitt.

«Eva ha sempre avuto fiducia in lei», rispose Hopper a n voce soffocata. «Sapeva che sarebbe venuto.»

Pitt si guardò intorno. «Dov’è?»

Hopper indicò una cuccetta. «È arrivato appena in tempo. Eva è ridotta piuttosto male.»

Pitt andò a inginocchiarsi accanto alla figura immobile stesa sulla cuccetta. Il suo volto tradiva una grande tristezza: non riusciva a credere che si fosse tanto consunta in una settimana. La prese gentilmente per le spalle e la scosse. «Eva, sono tornato.»

Eva si mosse, aprì gli occhi, lo guardò con occhi velati. «Lasciami dormire ancora un poco», mormorò.

«Sei salva. Ti porterò via da qui.»

Lei lo riconobbe, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Sapevo che saresti tornato per me… per tutti noi.»

«È stato un miracolo se ci siamo riusciti.»

Lei lo guardò negli occhi e sorrise. «Non ne ho mai dubitato.»

Pitt la baciò a lungo e teneramente.

Gli infermieri si misero subito al lavoro per assistere i prigionieri mentre le unità da combattimento incominciavano a condurre in superficie quelli che erano in grado di camminare e li facevano salire sui veicoli per il trasporto truppe. I timori iniziali trovarono conferma: l’operazione procedeva lentamente perché molti erano troppo deboli per muoversi e dovevano essere portati via di peso.

Quando si fu assicurato che Eva, le altre donne e i bambini avessero l’assistenza necessaria e venissero condotti in superficie, Pitt si fece consegnare da uno degli uomini di Levant un sacchetto di esplosivo plastico e tornò da O’Bannion, che aveva ripreso i sensi e stava seduto accanto a un carrello per minerali sotto la sorveglianza attenta di una donna del commando.

«Venga, O’Bannion», gli ordinò. «Andiamo a fare una passeggiata.»

Il litham di O’Bannion era caduto e lasciava scoperta la faccia sfigurata dall’esplosione di una carica di dinamite, avvenuta molti anni prima in Brasile. Perdeva sangue dalla bocca e il colpo sferrato da Pitt con il calcio del mitra gli aveva fatto saltare due denti.

«Dove?» chiese muovendo a stento le labbra gonfie.

«A rendere omaggio ai morti.»

Pitt fece alzare bruscamente l’ingegnere e lo spinse lungo il binario, in direzione della cripta. Camminavano in silenzio, aggirando i corpi dei tuareg che avevano commesso lo sbaglio di opporre resistenza. Quando giunsero nella caverna dei morti, O’Bannion esitò ma Pitt lo sospinse freddamente all’interno.

O’Bannion si voltò a guardarlo con un’espressione sprezzante. «Mi ha portato qui per farmi una predica sulla mia crudeltà verso i miei simili, prima di ammazzarmi?»

«No», rispose Pitt. «La lezione è ovvia senza bisogno di prediche. E non l’ammazzerò. Sarebbe troppo comodo, troppo rapido. Un attimo di sofferenza e poi la tenebra. No, penso che lei meriti una fine più appropriata.»

Per la prima volta un lampo di paura passò negli occhi di O’Bannion. «Che cosa ha in mente?»

Pitt indicò i mucchi dei cadaveri con la canna del mitra. «Le darò il tempo di meditare sulla sua brutalità e sulla sua avidità.»

O’Bannion lo fissò, confuso. «Perché? Si sbaglia, se pensa che invocherò perdono e chiederò clemenza.»

Pitt fissò il corpo fragile e gli occhi sbarrati di una bambina che non poteva avere più di dieci anni. La collera divampò in lui, e dovette compiere uno sforzo disperato per dominarsi.

«Morirà, O’Bannion, ma morirà lentamente, e soffrirà i tormenti della fame e della sete che ha imposto a questi sventurati. Prima che i suoi amici Kazim e Massarde la trovino, ammesso che si degnino di cercarla, avrà raggiunto il resto delle sue vittime.»

«Mi spari! Mi uccida subito!» gridò O’Bannion.

Pitt gli rivolse un sorriso gelido e non disse nulla. Costrinse O’Bannion a indietreggiare sul fondo della caverna, poi tornò nel tunnel di accesso, piazzò l’esplosivo plastico a vari intervalli, e regolò i timer. Rivolse un ultimo cenno di commiato a O’Bannion, poi corse nel pozzo e si nascose dietro un convoglio di carrelli.

Quattro detonazioni fragorose, una dopo l’altra, scagliarono nel pozzo principale polvere e frammenti di travi di sostegno. Le esplosioni echeggiarono nelle miniere per lunghi istanti, poi sopravvenne uno strano silenzio. Pitt si chiese se aveva piazzato le cariche in posizioni sbagliate. Ma poi sentì un suono fioco che divenne un rombo quando la volta del tunnel crollò sotto il peso di centinaia di tonnellate di roccia e sigillò l’ingresso della camera sepolcrale.

Attese che la polvere cominciasse a ricadere prima di mettere il mitra in spalla e di avviarsi verso l’area dell’evacuazione, lungo il binario, fischiettando.

Giordino sentì un rumore e scorse un movimento in un pozzo laterale, sulla sinistra. Avanzò lungo le rotaie e arrivò a un carrello vuoto. Continuò a procedere rasente alla parete, cercando di non smuovere le pietre, e si accostò. Poi, con l’agilità di un gatto, scavalcò il binario e puntò la canna dell’arma all’interno del carrello.

«Butta fuori il mitra», ordinò.

Colto di sorpresa, il tuareg si alzò tenendo il mitra sopra la testa. Non conosceva l’inglese e non capiva il comando di Giordino: ma si rendeva conto della situazione. Fissò la canna dell’arma che lo minacciava, comprese e lasciò cadere a terra il mitra.

«Melika?» gridò Giordino.

La guardia scosse la testa, ma Giordino riconobbe l’espressione atterrita. Premette la canna contro la bocca della guardia e contrasse il dito sul grilletto.

«Melika!» mormorò la guardia mentre la canna d’acciaio le si piantava in gola. Poi annuì, freneticamente.

Giordino tirò indietro l’arma. «Dov’è Melika?» chiese in tono minaccioso.

Il tuareg sembrava aver paura di Melika non meno che di Giordino. Sgranò gli occhi e, in silenzio, indicò il pozzo. Giordino gli accennò di uscire dal corridoio trasversale. Poi tese il braccio.

«Torna alla caverna grande. Capito?»

Il tuareg s’inchinò, con le mani sopra la testa, si mosse a ritroso, inciampò e cadde sulla rotaia nella fretta di obbedire. Giordino gli voltò le spalle e continuò nel tunnel buio che si estendeva davanti a lui. Si aspettava una raffica a ogni passo.

C’era un silenzio di morte, rotto soltanto dal suono dei suoi stivali sulle traversine. Si soffermò due volte, conscio del pericolo. Raggiunse una curva netta del pozzo e si fermò. C’era un barlume di luce che proveniva dall’altra parte; e c’erano anche un’ombra e il suono della pietra contro la pietra. Prese uno specchietto per segnalazioni da una delle molte tasche della tuta e lo tese piano piano oltre una trave.

Melika lavorava febbrilmente: ammucchiava pietre in fondo al pozzo per nascondersi dietro una falsa parete. Voltava la schiena a Giordino, ma era ancora a una decina di metri, e teneva un mitra appoggiato alla roccia, a portata di mano. Lavorava senza prendere altre precauzioni: evidentemente pensava che il tuareg l’avrebbe avvertita dell’approssimarsi di un pericolo. Non sapeva che era stato disarmato. Giordino avrebbe potuto mettersi al centro del pozzo e spararle prima che si accorgesse della sua presenza. Ma non intendeva ucciderla subito.