Superò furtivamente la curva; il suono dei suoi movimenti era coperto dal rumore delle rocce spostate da Melika. Quando fu abbastanza vicino, afferrò l’arma della donna e la gettò lontana, alle sue spalle.
Melika si voltò di scatto, si rese fulmineamente conto della situazione e si avventò, facendo sibilare nell’aria la terribile cinghia. Ma non riuscì a cogliere di sorpresa Giordino: la sua faccia era una maschera fredda e implacabile quando premette il grilletto e le sparò alle ginocchia.
Lo spirito di vendetta lo dominava completamente. Melika era feroce e pericolosa come un toro imbizzarrito. Aveva torturato e ucciso per il gusto di farlo. Persino adesso, mentre giaceva sulle pietre con le gambe grottescamente contorte, lo fissava con i denti snudati e gli occhi feroci. Il sadismo, in lei, era più forte della sofferenza. Ringhiò come una belva ferita e cercò di colpire Giordino con la cinghia mentre lo insultava.
Giordino indietreggiò agilmente di fronte all’inutile attacco. «Il mondo è violento e spietato», mormorò. «Ma lo sarà un po’ meno quando non ci sarai più.»
«Piccolo bastardo», ringhiò Melika. «Cosa ne sai, tu, della violenza del mondo? Non sei mai vissuto nel sudiciume e non hai mai sofferto come me.»
L’espressione di Giordino era dura come la roccia. «Questo non ti autorizzava a far soffrire gli altri. Come giudice e boia, i problemi della tua vita non m’interessano. Forse avevi le tue ragioni per diventare quello che sei. Ma, secondo me, sei malata dalla nascita. Ti sei lasciata alle spalle una scia di vittime innocenti. Non hai un motivo per vivere.»
Melika non implorò. Un torrente di odio velenoso le uscì dalla bocca in forma di maledizioni. Con calcolata efficienza, Giordino le sparò allo stomaco, due volte. Gli occhi lampeggianti videro solo l’espressione indifferente dell’uomo, poi divennero vitrei e il corpo massiccio parve rattrappirsi sul pavimento roccioso.
Giordino la fissò per lunghi istanti, e finalmente parlò al cadavere.
«Ecco fatto», mormorò. «La Strega è morta.»
47.
«Venticinque in tutto», riferì Pembroke-Smythe a Levant. «Quattordici uomini, otto donne e tre bambini. Tutti più morti che vivi.»
«Una donna e un bambino in meno di quando ce ne siamo andati Giordino e io», commentò irosamente Pitt.
Levant guardò i prigionieri liberati che salivano sui veicoli e consultò l’orologio. «Abbiamo un ritardo di sedici minuti», disse, impaziente. «Cerchi di sbrigarsi, capitano. Dobbiamo metterci in viaggio.»
«Saremo pronti a partire fra un attimo», annunciò allegramente Pembroke-Smythe mentre correva intorno ai veicoli ed esortava i suoi ad affrettarsi.
«Dov’è il suo amico Giordino?» chiese Levant a Pitt. «Se non arriverà presto, dovremo lasciarlo qui.»
«Aveva qualcosa da fare.»
«Potrà considerarsi fortunato se riuscirà ad attraversare i livelli inferiori. Dopo che i prigionieri hanno fatto irruzione nei magazzini dei viveri e dell’acqua, hanno cominciato a vendicarsi delle guardie. L’ultima squadra che è risalita in superficie ha riferito che è in corso un massacro.»
«Non si può dare loro torto, dopo quello che hanno passato», rifletté Pitt.
«Mi rincresce abbandonarli», ammise Levant. «Ma se non ce ne andiamo al più presto, saliranno con gli ascensori e dovremo combattere per evitare che s’impadroniscano dei veicoli.»
Giordino arrivò a passo svelto dal corridoio degli uffici, dove sei uomini montavano la guardia all’entrata della caverna dell’equipaggiamento. Aveva un’espressione soddisfatta; sorrise a Pitt e a Levant. «Mi fa piacere che non abbiate cominciato lo spettacolo senza di me.»
Levant non aveva voglia di scherzare. «Non è per lei che ci siamo trattenuti.»
«Melika?» chiese Pitt.
Giordino mostrò la cinghia che aveva preso come souvenir. «Sta firmando il registro degli ospiti all’inferno. E O’Bannion?»
«Sta facendo la guardia all’obitorio.»
«Pronti per partire», gridò Pembroke-Smythe che era salito a bordo d’un trasporto.
Levant annuì. «Signor Pitt, ci riporti alla pista di atterraggio.»
Pitt andò a controllare come stava Eva, e si stupì nel vedere che si stava riprendendo in fretta dopo aver bevuto quasi cinque litri d’acqua e aver divorato un pasto fornito dagli infermieri. Anche Hopper, Grimes e Fairweather sembravano risuscitati. Pitt tornò correndo alla dune buggy e si mise al volante.
Con un margine di pochi secondi, la retroguardia corse verso l’ultimo veicolo in partenza e fu issata a bordo mentre i prigionieri uscivano correndo dalle miniere, attraversavano gli uffici e si precipitavano nella caverna dell’equipaggiamento. Ma arrivarono tardi e rimasero a guardare, in preda a un’atroce delusione, mentre la forza speciale che li aveva salvati da una morte orribile spariva nella notte e li abbandonava a un destino incerto.
Pitt non vedeva alcun motivo di essere prudente mentre accelerava nel canyon. Accese i fari della dune buggy e continuò a tenere il piede sull’acceleratore. Come gli aveva chiesto il colonnello Levant, s’era lasciato indietro gli altri veicoli per precederli tutti e andare a sovrintendere ai preparativi per un rapido decollo. Giordino guidava il primo trasporto truppe e seguiva senza difficoltà le tracce dei pneumatici dopo che la nuvola di polvere sollevata dal mezzo di Pitt era sparita in lontananza.
Durante il tragitto di ritorno, Levant non nascose il nervosismo. Controllava l’orologio a intervalli brevissimi: era preoccupato perché ormai avevano ventidue minuti di ritardo rispetto alla tabella di marcia. Cominciò a tranquillizzarsi quando rimasero appena cinque chilometri da percorrere. Il cielo era sereno e non si vedevano aerei. Adesso Levant stava per diventare ottimista. Poteva darsi che il servizio di sicurezza di Kazim si fosse lasciato ingannare quando il sergente Chauvel aveva inventato una spiegazione per il segnale d’allarme.
Ma molto presto fu disilluso.
All’improvviso sentirono, più forte del rombo smorzato della dune buggy, il suono inconfondibile del motore a reazione e scorsero le luci che sfrecciavano nel cielo buio. Levant incominciò immediatamente a dare all’equipaggio e all’unità del servizio di sicurezza l’ordine di allontanarsi dall’airbus e di mettersi al riparo.
Pitt frenò e fece deviare bruscamente la dune buggy fermandosi poi, in un turbine di polvere, dietro una piccola duna. Staccò le mani dal volante e alzò gli occhi verso l’aereo. «Probabilmente siamo oggetto di attenzioni alquanto sgradite.»
«Kazim deve aver mandato un aereo da ricognizione per accertare se l’allarme si riferiva a un attacco.» La voce di Levant era decisa, ma il suo viso rispecchiava un’apprensione profonda.
«Secondo me, il pilota non sospetta niente, altrimenti non volerebbe tranquillo, con tutte le luci che lampeggiano.»
Levant fissò cupamente la sagoma del caccia che volava in cerchio sopra l’airbus, in fondo alla pista. «Temo che stia segnalando la presenza di un aereo non identificato e chieda istruzioni per attaccare.»
L’attesa non durò a lungo. Il caccia, che adesso era riconoscibile per un Mirage di fabbricazione francese, virò all’improvviso e scese in picchiata verso la pista, puntando i mirini laser sull’airbus che stava immobile e impotente come una vacca addormentata davanti a un cannone.
«Sta per attaccare!» gridò Pitt.
«Apri il fuoco!» urlò Levant all’uomo che era seduto dietro di loro, chino sulla mitragliatrice Vulcan multicanne. «Abbattilo!»