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Il mitragliere seguì il caccia maliano sul mirino computerizzato e nell’istante in cui ebbe stabilito l’angolo e la distanza attivò il sistema di sparo. Come le mitragliere Gatling del secolo scorso, le sei canne della Vulcan ruotarono rapidamente, e migliaia di proiettili da 20 millimetri fendettero il cielo nero. I colpi arrivarono a segno e incominciarono a squarciare il Mirage nello stesso istante in cui il pilota lanciava due missili contro l’airbus immobile sulla pista.

Il deserto divenne un ribollire di fragore e di fiamme quando i due aerei esplosero simultaneamente. Il caccia, trasformato in una sfera di fuoco arancio, continuò a scendere nell’angolo di attacco come se fosse tirato da uno spago, fino a quando piombò a terra e scagliò tutto intorno, nel deserto indifferente, mille frammenti incendiati. L’airbus non era più un aereo, ma solo una grande massa di fiamma che lambiva una nube di fumo oleoso, una colonna immensa protesa nel cielo a oscurare le stelle.

Pitt rimase ipnotizzato a guardare il punto dove fino a pochi secondi prima c’erano due aerei intatti: adesso vedeva soltanto fuoco e distruzione. Seguito da Levant, scese a terra e rimase immobile. Nel bagliore del fuoco, notò l’espressione amara e sconfitta sul volto del colonnello.

«Maledizione», imprecò Levant. «È successo quel che temevo. Ora siamo in trappola, senza speranza di salvezza.»

«Kazim sospetterà che un contingente straniero abbia invaso nuovamente il suo territorio», soggiunse Pitt. «Manderà a Tebezza tutte le sue forze aeree. Allora i vostri elicotteri d’appoggio finiranno a pezzi prima di poter arrivare al rendez-vous.»

«Non possiamo far altro che dirigerci verso il confine», ammise Levant.

«Non ce la faremmo mai. Anche se gli aerei di Kazim non riuscissero a usarci per il tiro al bersaglio e se le sue forze del servizio di sicurezza non ci tagliassero la strada e non ci attaccassero a ogni passo, i nostri veicoli esaurirebbero il carburante prima dell’arrivo dei soccorsi. I suoi commando potrebbero farcela, ma i poveretti che abbiamo liberato dalle miniere moriranno nel deserto. Lo so. Ci sono passato.»

«Lei era costretto a dirigersi verso est, verso la Transahariana», ribatté Levant. «Un tratto di circa quattrocento chilometri. Se puntiamo verso nord, dovremo coprire solo duecentoquaranta chilometri prima di entrare in Algeria e di incontrare il contingente partito da Algeri per soccorrerci. Il carburante basterà.»

«Dimentica che per Kazim e Massarde le miniere di Tebezza sono troppo importanti», obiettò Pitt, voltandosi a guardarlo. «Faranno di tutto per evitare che venga scoperto il segreto delle loro atrocità.»

«Pensa che ci attaccherebbero anche in Algeria?»

«L’operazione di salvataggio li ha messi con le spalle al muro», disse Pitt. «Non sarà una sciocchezza come un confine nazionale a trattenerli dall’ordinare attacchi aerei in un settore desolato del territorio algerino. Quando il contingente dei soccorsi sarà ridotto al minimo e l’aereo distrutto o costretto alla fuga, manderanno all’assalto tutte le loro forze per annientarci. Non possono permettere che qualcuno sopravviva e smascheri le loro attività disumane.»

Levant voltò le spalle alla distruzione, con il viso illuminato dalle fiamme, e fissò Pitt. «Non approva i miei piani per questa evenienza?»

«Non amo essere prevedibile.»

«Sta facendo il misterioso, signor Pitt? O il modesto?»

«Sono semplicemente pratico», rispose Pitt. «Ho tutte le ragioni per credere che Kazim non si fermerà al confine.»

«E cosa propone di fare?» chiese Levant in tono paziente.

«Dirigerci a sud fino a quando incontreremo la ferrovia di Fort Foureau», spiegò Pitt. «E impadronirci di un treno diretto in Mauritania. Se giocheremo bene le nostre carte, Kazim non sospetterà nulla fino a quando non saremo arrivati a Port Etienne e al mare.»

«Nella tana del leone», borbottò Levant. «A sentirla, sembra tutto semplice e assurdo.»

«Il territorio fra qui e l’impianto di smaltimento di Fort Foureau è quasi tutto deserto piatto, con qualche tratto di dune. Se manterremo una velocità media di cinquanta chilometri orari, potremo arrivare alla ferrovia prima del levar del sole e senza finire il carburante.»

«E poi? Saremo esposti da ogni lato.»

«Ci nasconderemo in un vecchio forte della Legione Straniera fino a quando sarà buio. Poi fermeremo un treno in partenza e caricheremo tutti a bordo.»

«Il primo Fort Foureau. Fu abbandonato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. L’ho visitato, una volta.»

«È proprio quello.»

«Sarebbe un suicidio, senza qualcuno che ci guidi attraverso le dune», osservò Levant.

«Uno dei prigionieri liberati è una guida turistica di professione e conosce il deserto maliano come i nomadi.»

Levant tornò a fissare per lunghi istanti l’airbus che bruciava, riflettendo sui pro e i contro della proposta di Pitt. Se fosse stato al posto di Kazim, avrebbe pensato che i fuggiaschi puntassero a nord verso il confine più vicino. E avrebbe impegnato le sue forze nel tentativo di fermarli. Pitt aveva ragione, pensò. Non c’erano speranze di arrivare vivi in Algeria. Kazim non avrebbe rinunciato alla caccia fino a che non fossero morti tutti. Se si fossero avviati nella direzione opposta avrebbero potuto indurre il generale e Massarde a un inseguimento inutile fino a quando la squadra tattica avesse potuto mettersi al sicuro.

«Non gliel’avevo detto, vero, signor Pitt? Quando ero nella Legione Straniera, ho passato otto anni nel deserto.»

«No, colonnello, non me l’aveva detto.»

«I nomadi raccontano la leggenda di un leone trafitto dalla lancia d’un cacciatore che risali a nord dalla giungla e attraversò a nuoto il Niger per poter morire sulla sabbia calda del deserto.»

«È una leggenda con una morale?» chiese Pitt.

«Non proprio.»

«E allora che significa?»

Levant si voltò verso i veicoli che stavano arrivando e si fermavano accanto alla dune buggy. Poi guardò di nuovo Pitt e sorrise. «Significa che mi fiderò della sua intuizione. Andremo a sud, verso la ferrovia.»

48.

Kazim entrò nell’ufficio di Massarde alle undici di sera. Si versò un gin on the rocks e sedette in poltrona prima che Massarde si degnasse di alzare gli occhi e di prendere atto della sua presenza.

«Sono stato informato della tua visita inattesa, Zateb», disse Massarde. «Come mai sei venuto a Fort Foureau a quest’ora?»

Kazim fissò il bicchiere e fece roteare i cubetti di ghiaccio. «Ho pensato che fosse meglio dirtelo personalmente.»

«Che cosa?» domandò spazientito Massarde.

«C’è stata un’incursione a Tebezza.»

Massarde aggrottò la fronte. «Di cosa stai parlando?»

«Verso le nove, il mio servizio comunicazioni ha ricevuto un allarme dal sistema di sicurezza delle miniere», spiegò Kazim. «Pochi minuti più tardi, l’operatore radio di Tebezza ha dichiarato che era tutto a posto e che l’allarme era dovuto a un circuito elettrico difettoso.»

«Mi sembra credibile.»

«Solo in apparenza. Non mi fido delle situazioni apparentemente credibili. Ho ordinato a uno dei miei caccia di fare un volo di ricognizione sulla zona. Il pilota ha comunicato che un jet di trasporto non identificato era atterrato sulla pista di Tebezza. Era lo stesso tipo di airbus francese che ha preso a bordo l’americano all’aeroporto di Gao.»

Massarde si oscurò. «Il pilota ne era certo?»

Kazim annuì. «Dato che nessun aereo può atterrare a Tebezza senza la mia autorizzazione, gli ho ordinato di distruggerlo. Il pilota ha dato il ricevuto e ha attaccato. Ha segnalato di aver colpito il bersaglio e subito dopo la sua radio ha smesso di funzionare.»