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La spiaggia sembrava deserta. Eva girò la testa e guardò avanti e indietro, lungo la costa, come una cerbiatta diffidente. L’unico segno di vita, oltre a lei, era una jeep Cherokee turchese con le lettere NUMA dipinte sulla portiera, situata a un centinaio di metri di distanza lungo la strada. L’aveva superata prima di parcheggiare. L’occupante della Cherokee non si vedeva.

Il sole mattutino aveva già scaldato la sabbia che le scottava i piedi scalzi mentre si avviava verso l’acqua. Si fermò a pochi metri dalla battigia e stese sulla sabbia un telo da spiaggia. Guardò l’ora prima di lasciar cadere l’orologio nella borsa. Si spalmò di lozione solare a fattore di protezione venticinque, poi si stese supina, sospirò e incominciò a crogiolarsi sotto il sole africano.

Soffriva ancora dell’effetto del jet lag dopo il lungo volo da San Francisco al Cairo, e delle conseguenze di quattro giorni di discussioni ininterrotte con medici e colleghi biologi sulle strane epidemie di disturbi nervosi scoperte di recente nel Sahara meridionale. S’era concessa una pausa fra una conferenza e l’altra, e adesso non chiedeva altro che immergersi in qualche ora di riposo e di solitudine prima di viaggiare nel deserto immenso per una missione di ricerca. Mentre la brezza marina le accarezzava la pelle, chiuse gli occhi e si assopì.

Quando si svegliò, consultò di nuovo l’orologio. Erano le undici e venti. Aveva dormito un’ora e mezzo. La lozione le aveva protetto la pelle, che era appena rosata. Si girò sullo stomaco e guardò la spiaggia. Due uomini in camicie a maniche corte e calzoncini kaki venivano nella sua direzione lungo la battigia. Si fermarono non appena si accorsero che li stava osservando, e si voltarono come per guardare una nave di passaggio. Erano ancora lontani duecento metri, ed Eva non badò a loro.

All’improvviso, tuttavia, qualcosa attirò la sua attenzione verso l’acqua, qualcosa che era a una certa distanza dalla riva. Una testa dai capelli neri era affiorata in superficie. Eva si riparò gli occhi dal sole con una mano e socchiuse le palpebre. Un uomo con la maschera e le pinne stava nuotando da solo nell’acqua profonda, al di là dei frangenti. Sembrava che stesse praticando la pesca subacquea. Eva lo vide reimmergersi e rimanere sott’acqua tanto a lungo da farle pensare che stesse annegando. Invece l’uomo risalì, poi continuò la caccia. Dopo diversi minuti nuotò verso la riva approfittando di un’onda favorevole per accostarsi prima di alzarsi in piedi.

Stringeva uno strano fucile subacqueo con una lunga fiocina acuminata e cerotti fissati alle estremità. Con l’altra mano reggeva un gruppo di pesci, ognuno dei quali pesava almeno un chilo e mezzo, fissati da un anello di acciaio inossidabile infilato attraverso le branchie.

Nonostante l’abbronzatura, il viso energico non aveva lineamenti arabi. I folti capelli d’ebano erano incollati alla testa dall’acqua salata e il sole faceva brillare le gocce impigliate nel pelo del petto. Era alto, solido, con le spalle ampie, e camminava con una scioltezza elegante impossibile per la maggior parte degli uomini. Eva calcolò che doveva essere prossimo alla quarantina.

Quando le passò accanto, l’uomo le lanciò un’occhiata impassibile. Era abbastanza vicino perché Eva vedesse che gli occhi distanti erano di un verde opalino, un colore che spiccava in contrasto con il bianco. La guardò con una franchezza che sembrò penetrare nella sua mente e ipnotizzarla. Una parte del suo essere temeva che l’uomo si fermasse e dicesse qualcosa, un’altra parte si augurava che lo facesse. Ma i denti candidi lampeggiarono in un sorriso affascinante mentre l’uomo le rivolgeva un cenno e proseguiva verso la strada.

Eva lo seguì con lo sguardo fino a quando sparì oltre le dune, nell’area dove stava la Cherokee della NUMA. Cosa mi ha preso? si domandò. Avrei dovuto almeno ricambiare il suo sorriso. Poi lo scacciò dalla mente; tanto, sarebbe stato tempo sprecato perché probabilmente l’uomo non conosceva l’inglese. Eppure, gli occhi le brillavano d’una luce che non vi era comparsa da molto tempo. Era strano, pensò, sentirsi di nuovo giovane ed eccitata da un maschio sconosciuto che l’aveva sbirciata solo per un attimo e che non avrebbe mai più incrociato la sua strada.

Avrebbe voluto buttarsi in acqua per rinfrescarsi; ma i due uomini che prima avevano passeggiato sulla spiaggia s’erano avvicinati e stavano transitando fra lei e il mare; perciò decise di aspettare che si fossero allontanati. Non avevano i lineamenti fini degli egiziani ma il naso piatto, la carnagione più scura, quasi nera, e i capelli ricciuti degli abitanti del margine meridionale del Sahara.

I due si fermarono e per l’ennesima volta scrutarono furtivamente la spiaggia in entrambe le direzioni. Poi si avventarono su di lei.

«Andate via!» urlò Eva d’istinto. Cercò disperatamente di lottare; ma uno dei due, un individuo dalla faccia di topo, gli occhi subdoli e i folti baffi neri, l’afferrò brutalmente per i capelli e la fece cadere riversa. Una paura gelida s’impadronì di Eva mentre l’altro uomo, con i denti macchiati di nicotina scoperti in un ghigno sadico, si lasciava cadere in ginocchio sopra le sue cosce. L’aggressore dalla faccia da topo le piombò a cavalcioni sul petto, le bloccò le braccia con le gambe e la immobilizzò sulla sabbia. Eva era prigioniera e non poteva muovere altro che le dita delle mani e i piedi.

Stranamente, non c’era libidine nei loro occhi. Nessuno dei due cercò di strapparle il costume. Non si comportavano come se avessero intenzione di violentarla. Eva urlò di nuovo, con voce alta e stridula. Ma le rispose soltanto il suono monotono della risacca.

Oltre a lei e agli assalitori, sulla spiaggia non c’era anima viva.

Poi le mani dell’uomo dalla faccia di topo le coprirono il naso e la bocca e incominciarono a soffocarla, con calma ma con decisione inflessibile. Il peso che le gravava addosso contribuiva a toglierle il respiro, e l’aria non le arrivava più ai polmoni.

In un momento di terrore ipnotico e d’incredulità, Eva si rese conto che intendevano ucciderla. Tentò di urlare di nuovo, ma la voce era smorzata. Non provava alcun dolore, ma soltanto un panico cieco e la paralisi dello shock.

Cercò disperatamente di liberarsi dalla pressione implacabile sul volto, ma aveva le braccia e le mani strette in una morsa. I suoi polmoni invocavano l’aria che non c’era. La vista cominciò a offuscarsi. Si aggrappava con angoscia alla lucidità, ma sentiva che le stava sfuggendo. Vide che l’uomo che le bloccava le cosce sbirciava al di sopra della spalla di quello che stava per ucciderla; e pensò che quella faccia ghignante sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto in vita sua.

Chiuse gli occhi, ormai sull’orlo di un abisso di tenebra. Le balenò nella mente il pensiero che doveva trattarsi di un incubo, e che se avesse aperto gli occhi tutto sarebbe svanito. Dovette compiere uno sforzo immenso per alzare le palpebre e guardare per l’ultima volta la realtà.

Era davvero un incubo, pensò quasi con gioia. L’uomo dai denti macchiati non ghignava più. Una sottile asta metallica gli spuntava dalle tempie, come le frecce che si acquistano nei negozi di scherzi di carnevale, e si mettono sulla testa per dare l’impressione di avere il cranio trapassato. La faccia dell’assalitore si contrasse: un attimo dopo cadde riverso sui piedi di Eva, con le braccia spalancate.

L’altro, l’uomo dalla faccia di topo, era così intento a soffocare Eva che non si accorse neppure di quanto era accaduto al compagno. Poi, per un secondo o due, restò immobile mentre due mani robuste si materializzavano e lo stringevano, una intorno al mento, l’altra sulla fronte. Eva sentì la pressione sul naso e sulle labbra cessare di colpo quando l’uomo che aveva tentato di assassinarla alzò le braccia e cercò furiosamente di liberarsi dalla stretta. Il nuovo sviluppo inaspettato contribuì a rendere ancora più irreale l’incubo agli occhi di Eva.