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Quando si era spento, la sua vedova e il medico curante avevano pensato che quella dichiarazione fosse il delirio d’un morente. Sembrava che il direttore del giornale avesse pubblicato il pezzo solo perché quel giorno non c’erano molte notizie.

Perlmutter rilesse l’articolo. Avrebbe voluto accettarlo nonostante lo scetticismo della vedova e del medico, ma un rapido controllo del ruolino dell’equipaggio gli rivelò che non c’era nessun Clarence Beecher quando la Texas era partita da Richmond. Sospirò e chiuse il fascicolo.

«Ormai ho trovato quel che potevo trovare», disse a Moore. «Vorrei vedere i documenti della Marina unionista.»

Moore lo aiutò a rimettere i fascicoli negli schedari e lo precedette sulla scala d’acciaio che conduceva al primo piano. «Che mese e che anno le interessano?» chiese.

«Aprile 1865.»

Si avviarono tra le file degli schedari che arrivavano fino al soffitto. Moore portò una scaletta nell’eventualità che il visitatore volesse esaminare i fascicoli più in alto e gli indicò lo schedario giusto.

Perlmutter incominciò ad ampliare la ricerca partendo dal 2 aprile 1865, la data in cui la Texas era salpata da Richmond. Aveva elaborato un personale sistema di ricerca e pochi erano più abili di lui nello scoprire gli indizi utili. Una tenacia ostinata e un istinto infallibile gli permettevano sempre di arrivare all’essenziale.

Incominciò con i rapporti ufficiali sulla battaglia. Quando ebbe terminato, passò ai resoconti dei civili che vi avevano assistito dalle rive del fiume James e dei marinai che s’erano trovati a bordo delle navi dell’Unione. In due ore esaminò i passi pertinenti di una sessantina di lettere e di quindici diari. Prese appunti su un grosso blocco, sotto lo sguardo attento di Frank Moore, che si fidava di lui ma aveva visto troppi ricercatori autorizzati che tentavano di sottrarre documenti storici, e quindi era molto coscienzioso.

Quando Perlmutter trovò il filo conduttore incominciò a districarlo, via via che una descrizione superficiale, un’informazione in apparenza insignificante portavano una quantità di rivelazioni su una storia che sembrava incredibile. Alla fine, quando non poté andare oltre, fece un cenno a Moore.

«Quanto tempo mi resta?»

«Due ore e dieci minuti.»

«Vorrei proseguire.»

«Cosa le interessa vedere?»

«La corrispondenza privata e i documenti relativi a Edwin McMasters Stanton.»

Moore annuì. «Il vecchio, ruvido segretario della Guerra di Lincoln. Non so che cosa abbiamo sul suo conto. I suoi documenti non sono mai stati catalogati in modo completo. Ma dovrebbero essere di sopra, con gli altri del governo dell’Unione.»

I documenti Stanton erano voluminosi: dieci schedari pieni. Perlmutter lavorò con impegno, interrompendosi una sola volta per andare in bagno. Procedette con tutta la rapidità possibile, ma trovò ben poco sui rapporti fra Stanton e Lincoln verso la fine della guerra. Era un fatto storicamente noto che il segretario della Guerra non aveva simpatia per il suo presidente, e aveva distrutto parecchie pagine del diario dell’assassino di Lincoln, John Wilkes Booth, nonché vari documenti riguardanti i complici. Con grande disperazione degli storici, Stanton aveva lasciato volutamente senza risposta molti interrogativi sull’attentato nel Ford’s Theatre.

Poi, quando gli restavano appena quaranta minuti, Perlmutter trovò ciò che cercava.

In fondo a uno schedario scovò un pacchetto ingiallito che portava ancora un sigillo intatto di ceralacca. Guardò la scritta in inchiostro marrone con la data del 9 luglio 1865, due giorni dopo che i complici di Booth, Mary Surratt, Lewis Paine, David Herold e George Atzerodt, erano stati impiccati nel cortile della prigione dell’arsenale di Washington. Sotto la data c’erano queste parole: «Da non aprire prima che siano trascorsi cent’anni dalla mia morte». E la firma di Edwin M. Stanton.

Perlmutter sedette a un tavolo, ruppe il sigillo, aprì il plico e cominciò a leggere le carte con trentun anni di ritardo rispetto alle istruzioni di Stanton.

E mentre leggeva aveva la sensazione di tornare indietro nel tempo. Nonostante il fresco del sotterraneo aveva la fronte imperlata di sudore. Quando terminò quaranta minuti più tardi e posò l’ultimo foglio, gli tremavano le mani. Esalò un lungo sospiro silenzioso e scosse la testa.

«Mio Dio», mormorò.

Moore lo guardò. «Ha trovato qualcosa d’interessante?»

Perlmutter non rispose. Continuò a fissare il mucchio di carte e a mormorare: «Mio Dio, mio Dio».

50.

Erano distesi dietro la cresta di una duna e guardavano il binario vuoto che si estendeva sulla sabbia come una ferrovia fantasma diretta verso l’oblio. Gli unici segni di vita, nell’oscurità che precedeva l’alba, erano le luci lontane dell’impianto di smaltimento di Fort Foureau. Al di là delle rotaie, a meno di un chilometro in direzione ovest, l’ombra nera del forte abbandonato s’innalzava contro il cielo buio come il castello maledetto di un film dell’orrore.

La corsa folle attraverso il deserto era andata bene; nessuno li aveva scoperti e non c’erano stati incidenti. I prigionieri avevano sofferto per i sobbalzi dei veicoli, ma erano troppo felici per lamentarsi. Fairweather li aveva guidati esattamente lungo la vecchia pista carovaniera che andava dalle miniere di sale di Taoudenni fino a Timbuctu. Aveva condotto il convoglio della ferrovia in vista del forte grazie alla sua conoscenza del terreno e a una bussola presa a prestito.

A un certo punto Pitt e Levant s’erano fermati ad ascoltare, quando avevano captato i suoni dei motori di un gruppo di elicotteri scortati da caccia a reazione. Stavano volando verso nord, in direzione di Tebezza e del confine con l’Algeria. Come Pitt aveva previsto, i piloti maliani avevano sorvolato il convoglio senza sospettare che i fuggiaschi stavano proprio sotto di loro.

«Ottimo lavoro, signor Fairweather», disse Levant. «Lei è il miglior navigatore che abbia mai conosciuto. Ci ha portati dritti all’obiettivo.»

«È questione d’istinto.» Fairweather sorrise. «D’istinto e di fortuna.»

«È meglio che attraversiamo i binari ed entriamo nel forte», suggerì Pitt. «Ci resta meno di un’ora per nascondere i veicoli prima che faccia giorno.»

Come strane creature notturne, la dune buggy e i trasporti truppe avanzarono sulla banchina, sobbalzando sulle traversine, fino a che arrivarono davanti al forte. Pitt svoltò dopo il relitto del camion Renault, lo stesso che lui e Giordino avevano usato per nascondersi prima di saltare sul treno per Fort Foureau, e si fermò all’entrata. I grandi battenti di legno erano ancora socchiusi come li avevano lasciati più di una settimana prima. Levant chiamò una squadra di uomini che li spalancarono per permettere al convoglio di entrare nella piazza d’armi.

«Se posso dare un suggerimento, colonnello», azzardò Pitt, «c’è appena il tempo perché i suoi cancellino le tracce delle nostre gomme che vanno dalla ferrovia al forte. Dovrebbe sembrare che un convoglio di veicoli militari maliani sia arrivato dal deserto e poi abbia proseguito sulla banchina della ferrovia per entrare nell’impianto di smaltimento dei rifiuti.»

«Buona idea», approvò Levant. «Devono credere che sia stata una delle loro pattuglie.»

Pembroke-Smythe, seguito da Giordino e dagli altri ufficiali, arrivò per chiedere ordini.

«La prima cosa da fare è mimetizzare i veicoli e trovare un riparo per le donne e i bambini», disse il colonnello. «E poi prepareremo il forte per un attacco in caso che i maliani capiscano di aver dato la caccia ai fantasmi e si mettano a cercare le nostre tracce non cancellate dal vento.»