«Lo penso anch’io.»
«Perché O’Bannion non ci aveva informati della fuga?»
«Evidentemente temeva la reazione sua e di Kazim. È un mistero come possano aver attraversato quattrocento chilometri di deserto senza viveri né acqua.»
«Se hanno parlato delle nostre miniere e degli schiavi ai loro superiori di Washington, devono aver rivelato anche il segreto di Fort Foureau.»
«Non hanno prove», disse Yerli. «Due stranieri che hanno varcato clandestinamente il confine e commesso azioni criminose contro il governo del Mali non verranno presi sul serio da nessun tribunale internazionale.»
«Ma il mio complesso sarà assediato dai giornalisti e dai rappresentanti delle associazioni ambientaliste», obiettò Massarde in tono secco.
«Non si preoccupi. Consiglierò a Kazim di chiudere le frontiere a tutti gli stranieri e di espellere quelli che tentano di passare.»
«Dimentica una cosa», sibilò Massarde che si sforzava di restare calmo. «Gli ingegneri e gli scienziati francesi che avevo ingaggiato per costruire l’impianto e che poi ho mandato a Tebezza. Appena saranno al sicuro, racconteranno di essere stati sequestrati e imprigionati. Peggio ancora, riveleranno che noi immagazziniamo illegalmente i rifiuti tossici. La Massarde Entreprises subirà attacchi da ogni parte, e io verrò incriminato in tutti i Paesi dove ho una filiale o un progetto in corso.»
«Nessuno di loro sopravvivrà per poter testimoniare», disse Yerli come se fosse una conclusione scontata.
«Ora cosa faremo?» chiese Massarde.
«I ricognitori di Kazim e le pattuglie motorizzate non hanno trovato nulla che indichi un loro sconfinamento in Algeria. Quindi sono ancora nel Mali, nascosti da qualche parte, ad attendere d’essere portati in salvo da un contingente di soccorritori.»
«Che le forze di Kazim provvederanno a fermare», concluse Massarde.
«Naturalmente.»
«È possibile che si siano diretti a ovest, verso la Mauritania?»
Yerli scosse la testa. «No. Ci sono più di mille chilometri fra loro e il primo villaggio con un pozzo. E non è possibile che trasportino carburante sufficiente per coprire quella distanza.»
«Bisogna fermarli, Ismail», disse Massarde senza nascondere una nota di disperazione. «Bisogna sterminarli.»
«Provvederemo», promise Yerli. «Glielo garantisco, non usciranno vivi dal Mali. Daremo la caccia a tutti, uno per uno. Possono ingannare Kazim, ma non me.»
Al Haj Ali era seduto sulla sabbia all’ombra del dromedario e attendeva che passasse un treno. Aveva percorso più di duecento chilometri dal villaggio di Araouane per vedere la meraviglia della ferrovia, descritta da un inglese di passaggio che guidava una comitiva di turisti attraverso il deserto.
Poco dopo aver compiuto quattordici anni, Ali aveva ottenuto dal padre il permesso di prendere uno dei due dromedari della famiglia, un superbo animale tutto bianco, e di recarsi a nord, fino al binario lucente, per vedere con i propri occhi il grande mostro d’acciaio. Anche se aveva visto automobili e aerei in volo, gli altri prodigi come le macchine fotografiche, le radio e i televisori erano per lui un mistero. Ma il fatto di aver visto e magari anche toccato una locomotiva gli avrebbe fatto guadagnare l’invidia di tutti i ragazzi del suo villaggio.
Bevve un po’ di tè e succhiò alcuni dolci bolliti mentre attendeva. Dopo tre ore, poiché il treno non compariva, montò sul dromedario e si avviò lungo la ferrovia verso il complesso di Fort Foureau, per poter parlare alla sua famiglia delle costruzioni immense che sorgevano nel deserto.
Quando fu vicino al forte della Legione Straniera, abbandonato da tanto tempo e circondato da alti muri, lasciò la ferrovia e, per curiosità, si accostò alla porta. I grandi battenti sbiancati dal sole erano chiusi. Balzò a terra e condusse il dromedario intorno al forte in cerca di un’altra apertura per poter entrare. Ma trovò soltanto argilla e pietre: desistette e tornò verso la ferrovia.
Guardò verso ovest, affascinato dalle rotaie argentee che si perdevano in lontananza e sembravano incurvarsi sotto le onde di calore ascendenti dalla sabbia arsa dal sole. Mentre si trovava sulle traversine il suo sguardo notò qualcosa. Un puntolino apparve aleggiando attraverso le ondate di calore, ingrandì e venne verso di lui. Il grande mostro d’acciaio, pensò emozionato.
Ma quando l’oggetto fu più vicino, Ali si accorse che era troppo piccolo per una locomotiva. Poi vide due uomini a bordo e notò che il veicolo sembrava un’automobile scoperta. Si scostò dal binario e si fermò accanto al dromedario mentre il carrello a motore con i due che ispezionavano i binari si fermava davanti a lui.
Uno dei due era uno straniero bianco, l’altro invece aveva la carnagione scura. Quest’ultimo lo salutò. «Sallam al laikum.»
«Al laikum el sallam», rispose Ali.
«Da dove vieni, ragazzo?» chiese il moro nella lingua berbera dei tuareg.
«Sono venuto da Araouane per vedere il mostro d’acciaio.»
«Hai fatto molta strada.»
«È stato un viaggio facile», si vantò Ali.
«Hai un magnifico dromedario.»
«Mio padre mi ha prestato il migliore.»
Il moro diede un’occhiata all’orologio d’oro. «Non dovrai aspettare molto. Il treno in arrivo dalla Mauritania passerà fra tre quarti d’ora.»
«Grazie, aspetterò», disse Ali.
«Hai visto qualcosa d’interessante nel vecchio forte?»
Ali scosse la testa. «Non si può entrare. La porta è chiusa.»
I due uomini si scambiarono occhiate di stupore e per qualche istante si parlarono in francese.
Poi il moro chiese: «Sei sicuro? Il forte è sempre aperto. È là che teniamo le traversine e il materiale per le riparazioni della ferrovia».
«Io non mento. Potete vedere voi stessi.»
Il moro smontò dal carrello e si avvicinò al forte. Pochi minuti dopo tornò e parlò in francese al collega bianco.
«Il ragazzo ha ragione. La porta principale è chiusa dall’interno.»
Il francese si oscurò. «Dobbiamo andare al complesso e riferire questo fatto.»
Il moro annuì e risalì sul carrello. Rivolse ad Ali un cenno di saluto. «Non stare troppo vicino al binario quando arriva il treno, e tieni ben stretta la briglia del dromedario.»
Il motore scoppiettò e il carrello proseguì sul binario in direzione del complesso, lasciando Ali a seguirlo con lo sguardo mentre il dromedario fissava stoicamente l’orizzonte.
Il colonnello Marcel Levant si rendeva conto che non poteva impedire al ragazzo nomade e agli addetti alla ferrovia d’ispezionare l’esterno del forte. In silenzio, una dozzina di mitra aveva seguito i movimenti degli intrusi. Non sarebbe stato un problema ucciderli e trascinare i cadaveri nel forte, ma Levant non se la sentiva di massacrare civili innocenti, quindi li risparmiò.
«Cosa ne pensa?» chiese Pembroke-Smythe mentre il carrello correva sul binario verso la stazione del servizio di sicurezza del complesso.
Levant studiò il ragazzo e il dromedario che riposavano ancora accanto al binario in attesa del passaggio del treno, e socchiuse gli occhi come un cecchino. «Se quei due riferiscono alle guardie di Massarde che il forte è chiuso, possiamo prevedere che una pattuglia armata verrà a controllare.»
Pembroke-Smythe guardò l’orologio. «Mancano sette ore all’imbrunire. Auguriamoci che reagiscano lentamente.»
«Il generale Bock non si è più fatto sentire?» chiese Levant.
«Abbiamo perduto il contatto. La radio è stata sbatacchiata durante il viaggio da Tebezza e i circuiti sono danneggiati. Non riuscivamo più a trasmettere e la ricezione è molto debole. L’ultimo messaggio del generale era troppo disturbato perché fosse possibile decifrarlo. Secondo l’operatore, accennava a una squadra delle Forze Speciali americane che dovrebbero incontrarsi con noi in Mauritania.»