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«Avrà bisogno di tempo per radunare le forze e coordinare un attacco. Non potrà far nulla prima di domattina.»

«Si assicuri che Kazim faccia quanto è necessario per impedire che Pitt e Giordino fuggano di nuovo.»

«È per questo che ho preso la precauzione di fermare tutti i treni da e per la Mauritania», mentì Yerli.

«Adesso dove si trova?»

«A Gao. Sto per salire sull’aereo del comando che lei ha generosamente regalato a Kazim. Il generale intende dirigere di persona l’assalto.»

«Non dimentichi, Yerli», disse Massarde con tutta la pazienza di cui era capace. «Niente prigionieri.»

53.

Arrivarono poco dopo le sei del mattino. I membri della squadra tattica dell’ONU erano stanchissimi dopo aver scavato trincee profonde alla base dei muri, ma erano pronti a resistere. Molti di loro, adesso, erano rintanati come talpe nelle buche, in previsione di un attacco aereo. Nell’arsenale sotterraneo i due infermieri avevano allestito un ospedale da campo mentre gli ingegneri francesi e i loro familiari stavano rannicchiati sul pavimento sotto i vecchi mobili per ripararsi dalle pietre e dalle macerie che potevano cadere dal soffitto. Soltanto Levant e Pembroke-Smythe, con gli addetti alla Vulcan che era stata asportata dalla dune buggy, erano rimasti sul bastione, protetti dai parapetti e dai mucchi di sacchetti di sabbia.

Sentirono gli aerei a reazione prima ancora di scorgerli, e diedero l’allarme.

Pitt non si mise al riparo; continuò a lavorare sul suo arco a molla per effettuare gli ultimi adattamenti. Le molle del camion, montate verticalmente su un labirinto di travi di legno, erano quasi piegate in due dal martinetto idraulico del vecchio carrello elevatore a forche trovato con il materiale per la ferrovia. Un bidone semipieno di gasolio, fissato alle molle e con una serie di fori nella parte superiore, stava su un’asse scanalata e inclinata verso il cielo. Dopo aver aiutato Pitt a montare la strana macchina, gli uomini di Levant si allontanarono. Non erano affatto convinti che il gasolio potesse venire lanciato oltre il muro senza esplodere all’interno del forte e bruciare vivi tutti coloro che si trovavano nella piazza d’armi.

Levant s’inginocchiò dietro il parapetto, con la schiena protetta da un mucchio di sacchetti di sabbia, e scrutò il cielo sereno. Individuò gli aerei e li studiò con il binocolo mentre cominciavano a volare in cerchio a cinquecento metri di quota, appena tre chilometri a sud del forte. Sembrava che non temessero di essere colpiti da missili terra-aria, come se fossero sicuri che il forte non poteva difendersi da un attacco aereo.

Come tanti altri pezzi grossi militari che preferivano il lustro alla praticità, Kazim aveva acquistato i veicoli Mirage dai francesi più per esibirli che per usarli in combattimento. Aveva ben poco da temere dai vicini, tutti militarmente più deboli; le forze del Mali erano state create per suscitare ammirazione verso Kazim e spaventare i rivoluzionari.

Il contingente d’attacco maliano aveva l’appoggio di una piccola flotta di elicotteri armati in modo leggero, la cui unica missione consisteva nello svolgere voli di ricognizione e trasportare truppe d’assalto. Solo i caccia erano in grado di lanciare missili che potevano mettere fuori combattimento carri armati e fortificazioni. Ma i piloti, che non disponevano delle nuove bombe a guida laser, dovevano prendere la mira manualmente e guidare i missili fino al bersaglio.

Levant parlò nel microfono dell’elmetto. «Capitano Pembroke-Smythe, rimanga con la Vulcan.»

«Rimango con Madeleine, e siamo pronti a sparare», rispose Pembroke-Smythe dalla postazione della mitragliera sul bastione di fronte.

«Madeleine?»

«Gli uomini si sono affezionati alla mitragliera, signore, e le hanno dato il nome d’una ragazza di cui hanno goduto i favori in Algeria.»

«Stia attento che Madeleine non faccia i capricci e non s’inceppi.»

«Sì, signore.»

«Lasciate che il primo aereo compia il suo passaggio», ordinò Levant. «Poi sparategli in coda mentre vira. Se calcolerete bene il tempo, dovreste farcela a girare l’arma e a centrare il secondo reattore prima che possa lanciare i missili.»

«Molto bene, signore.»

Pembroke-Smythe aveva appena finito di parlare quando il primo Mirage si staccò dalla formazione e scese a settantacinque metri, avanzando senza ricorrere a tattiche evasive per sfuggire al fuoco da terra. Il pilota non era un asso. Si avvicinò troppo lentamente e lanciò i missili un attimo troppo tardi.

Alimentato da un motore monostadio a propellente solido, il primo missile sfrecciò sopra il forte e la testata esplosiva scoppiò nella sabbia senza fare danni. Il secondo colpì il parapetto settentrionale, deflagrò, aprì uno squarcio di due metri nella sommità del muro e fece cadere una pioggia di frammenti di pietra sulla piazza d’armi.

Gli uomini della Vulcan seguirono il caccia che volava basso, e nell’istante in cui passò sopra il forte aprirono il fuoco. La mitragliera a sei canne rotanti, regolata per sparare mille colpi al minuto anziché duemila per risparmiare le munizioni, vomitò una gragnola di proiettili da 20 millimetri contro l’aereo che virava e si portava in una posizione vulnerabile. Un’ala si staccò nettamente come se fosse stata tagliata da un bisturi. Il Mirage si rovesciò sul dorso e andò a schiantarsi al suolo.

L’impatto non era ancora avvenuto quando gli uomini girarono Madeleine di 180 gradi e ripresero a sparare, questa volta contro il secondo jet, e lo colpirono in pieno. Si vide uno sbuffo nero, poi il caccia esplose in una sfera di fuoco e si disintegrò in pezzi che caddero contro il muro esterno del forte.

Il terzo caccia lanciò i missili troppo presto e virò. Levant rimase ad assistere con un’espressione assorta, mentre le esplosioni gemelle aprivano due crateri a circa duecento metri dal forte. Il resto della squadriglia interruppe l’attacco e incominciò a volare in cerchio, fuori tiro.

«Molto bene», disse Levant agli uomini addetti alla Vulcan. «Ora sanno che possiamo azzannarli, e lanceranno i missili più da lontano e con precisione minore.»

«Ci restano circa seicento colpi», riferì Pembroke-Smythe.

«Conservateli, per il momento. Dica ai suoi uomini di mettersi al coperto. Lasceremo che ci martellino per un po’. Prima o poi qualcuno diventerà imprudente e tornerà ad avvicinarsi.»

Kazim aveva ascoltato i piloti che si parlavano eccitati per radio; e poi aveva assistito alla débâcle iniziale per mezzo del sistema dei monitor del centro di comando. Sconvolti dal primo scontro con un nemico che rispondeva al fuoco, i piloti farfugliavano come bambini spaventati e chiedevano istruzioni.

Rosso in faccia per la rabbia, Kazim entrò nella cabina delle comunicazioni e cominciò a gridare alla radio. «Vigliacchi! Sono il generale Kazim. Voi aviatori siete il mio braccio destro, i miei giustizieri. Attaccate! Attaccate! Chi non si dimostrerà coraggioso sarà fucilato appena atterrerà, e la sua famiglia finirà in carcere.»

I piloti maliani, mal addestrati e fino a quel giorno troppo sicuri della loro abilità, erano più abituati a pavoneggiarsi per le strade e a correr dietro alle ragazze che a combattere avversali decisi a ucciderli. I francesi avevano fatto il possibile per modernizzare e istruire i nomadi del deserto nelle tattiche del combattimento aereo, ma la tradizione culturale era troppo radicata perché fosse possibile trasformarli in combattenti esperti.

Pungolati dalle parole di Kazim e timorosi più della sua collera che dei proiettili che avevano ucciso i loro compagni, ripresero con riluttanza ad attaccare e si tuffarono in picchiata verso le mura ancora solide del vecchio forte della Legione Straniera.

Come se si ritenesse indistruttibile, Levant si alzò e osservò l’attacco dai bastioni con la calma di uno spettatore a una partita di cricket. I primi due caccia lanciarono i missili e virarono bruscamente prima di avvicinarsi al bersaglio. Tutti i razzi passarono in alto e andarono a scoppiare al di là della ferrovia.