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Hargrove assisteva affascinato alla scena. Non riusciva a credere che qualcuno potesse sopravvivere in mezzo a quella distruzione. Quasi tutti i parapetti erano crollati, i bastioni erano un ammasso di macerie. Il lato dove un tempo stava il portone principale non era altro che un monticello di pietre frantumate. Era sbalordito nel vedere i numerosissimi cadaveri sparsi intorno al forte e i quattro carri armati bruciati.

«Dio, come si sono battuti», mormorò.

Giordino premette la canna della pistola alla tempia del macchinista. «Frena! Subito!»

Il macchinista era un francese che aveva lasciato il TGV, il treno ad alta velocità in servizio fra Parigi e Lione, per accettare uno stipendio doppio offerto dalla Massarde Entreprises. Frenò e fece fermare il convoglio esattamente tra il forte e il quartier generale da campo di Kazim.

Con precisione cronometrica i guerrieri di Hargrove balzarono dal treno in entrambe le direzioni ed entrarono subito in azione. Un’unità attaccò immediatamente il quartier generale maliano e colse alla sprovvista Kazim e il suo stato maggiore. Gli altri assaltarono da tergo le forze maliane. Gli elicotteri Apache, che erano fissati ai pianali dei carri merci, furono prontamente liberati dai teloni e dopo due minuti si levarono in volo e si piazzarono in posizione per lanciare i missili.

Nella confusione improvvisa, Kazim era paralizzato dalla scoperta che le Forze Speciali americane erano riuscite a passare il confine nonostante il suo schermo aereo. Era assalito dalla nausea dello shock e non tentava neppure di dirigere una difesa o di mettersi in salvo.

I colonnelli Mansa e Cheik lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono fuori della tenda, verso una macchina dello stato maggiore, mentre il capitano Batutta si metteva al volante. Ismail Yerli, animato come loro dallo spirito di conservazione, sedette a fianco di Batutta.

«Andiamo via!» urlò Mansa al capitano mentre insieme con Cheik prendeva posto sul sedile posteriore accanto a Kazim. «In nome di Allah, muoviamoci prima che ci ammazzino tutti.»

Batutta non aveva voglia di morire più di quanta ne avessero i suoi superiori. Gli ufficiali erano decisi ad abbandonare i loro uomini e non si facevano scrupolo di fuggire dal campo di battaglia per salvarsi la pelle. Atterrito al punto di non riuscire a pensare secondo logica, Batutta diede gas al motore e inserì la marcia. Anche se era un veicolo a quattro ruote motrici, le gomme affondarono nella sabbia soffice e scavarono due trincee parallele senza ottenere un minimo di trazione. Dominato dal panico, Batutta continuò a tenere il piede sull’acceleratore. Il motore urlò, protestando contro il numero eccessivo di giri mentre, stupidamente, il capitano peggiorava la situazione sprofondando le ruote nel terreno fino al mozzo.

Kazim mosse le labbra senza che ne uscisse alcun suono; poi tornò di colpo alla realtà e il terrore gli sfigurò la faccia. «Salvatemi!» gridò. «Vi ordino di salvarmi!»

«Idiota!» urlò Mansa a Batutta. «Molli l’acceleratore o non ce la faremo.»

«Ci sto provando!» replicò Batutta mentre il sudore gli grondava dalla fronte.

Yerli era l’unico che conservava la calma. Guardava in silenzio dal finestrino la morte che si avvicinava sotto forma di un uomo imponente e deciso che indossava l’uniforme americana.

Il sergente maggiore Jason Rasmussen di Paradise Valley, in Arizona, aveva condotto la sua squadra direttamente alle tende del quartier generale di Kazim. Il loro compito consisteva nel catturare i militari del settore comunicazioni e impedire che lanciassero l’allarme e provocassero un attacco da parte dell’Aeronautica. Dovevano muoversi con la stessa rapidità con cui un vampiro piscia sangue, aveva raccomandato in modo pittoresco il colonnello Hargrove quando aveva impartito le istruzioni, o sarebbe stata la fine per tutti se i caccia a reazione maliani li avessero sorpresi prima che i loro elicotteri potessero riattraversare il confine con la Mauritania.

Dopo che i suoi avevano stroncato una fiacca resistenza da parte dei soldati maliani sbigottiti e avevano interrotto tutte le comunicazioni, Rasmussen aveva notato con la coda dell’occhio la macchina dello stato maggiore ed era accorso. Da lontano aveva scorto tre uomini sul sedile posteriore e due su quello anteriore. Il suo primo pensiero, quando vide che la macchina era bloccata nella sabbia, fu di prenderli prigionieri. Ma poi il veicolo schizzò avanti e si mosse sul terreno solido. L’autista accelerò con prudenza e cominciò ad allontanarsi.

Rasmussen aprì il fuoco con il mitra e crivellò le portiere e i finestrini. I frammenti di vetro volarono scintillando nel sole. Quando ebbe vuotato due caricatori, scorse la macchina rallentare e fermarsi. Si avvicinò cautamente e vide che il guidatore era accasciato esanime sul volante. Il corpo di un alto ufficiale maliano spenzolava dal finestrino, un altro era stramazzato riverso a terra dalla portiera spalancata e fissava il cielo con occhi vitrei. Un terzo era seduto al centro del sedile posteriore con gli occhi aperti come se scrutasse in stato d’ipnosi un oggetto lontano. L’uomo sul sedile anteriore, accanto all’autista, aveva un’espressione stranamente serena.

A Rasmussen, l’ufficiale seduto al centro sembrava un feldmaresciallo da cartone animato. La giacca dell’uniforme era coperta di galloni dorati, fusciacche, nastrini e medaglie. Il sergente maggiore non riusciva a credere che fosse il capo supremo delle forze maliane. Si sporse all’interno della macchina e lo spinse con il calcio dell’arma. Il cadavere si rovesciò sul fianco rivelando due fori di proiettile attraverso la spina dorsale, alla base del collo.

Il sergente maggiore Rasmussen accertò che anche gli altri fossero già morti. Tutti avevano subito ferite letali. Non immaginava di aver compiuto la sua missione in modo superiore a ogni aspettativa. Senza gli ordini diretti di Kazim e dei suoi più stretti collaboratori, nessun ufficiale subordinato sarebbe stato disposto ad assumere l’iniziativa e a sferrare un attacco aereo. Da solo, il sergente dell’Arizona aveva cambiato la faccia di una nazione dell’Africa occidentale. In seguito alla morte di Kazim un nuovo partito politico, propugnatore delle riforme democratiche, avrebbe travolto i vecchi dirigenti del Mali e fondato un nuovo governo, un governo contrario agli intrallazzi degli avvoltoi come Yves Massarde.

Inconsapevole di aver cambiato la storia, Rasmussen ricaricò il mitra, non pensò più alla carneficina e tornò correndo dai suoi per aiutarli a completare il loro lavoro.

Sarebbero trascorsi quasi dieci giorni prima che il generale Kazim venisse sepolto nel deserto accanto al luogo della sua sconfitta, ìn una tomba senza nome.

57.

Pitt salì correndo la scala dell’arsenale e raggiunse i superstiti della squadra tattica che continuavano a resistere intorno all’entrata del sotterraneo. Avevano innalzato in fretta una barricata e falciavano la piazza d’armi con un fuoco incessante. Nel mare di devastazione e di morte continuavano a combattere con una tenacia folle per impedire che i nemici penetrassero nell’arsenale e massacrassero i civili e i feriti prima che Giordino e gli uomini delle Forze Speciali potessero intervenire.

Sbalorditi da quella difesa irriducibile, gli assalitori maliani si bloccarono quando Pitt, Pembroke-Smythe, Hopper, Fairweather e dodici membri della squadra dell’ONU, anziché arretrare, si avventarono su di loro. Sedici uomini che ne caricavano poco meno di mille, urlando come demoni e sparando a tutto ciò che si trovavano davanti.

La muraglia dei maliani si aprì come il mar Rosso davanti a Mosè, e indietreggiò dinanzi all’attacco spietato. Gli attaccanti si dispersero in ogni direzione. Ma non tutti erano sopraffatti dalla paralisi: alcuni dei più coraggiosi si inginocchiarono e spararono. Quattro uomini dell’ONU caddero, ma lo slancio portò avanti gli altri che s’impegnarono in un combattimento a corpo a corpo.