Aveva ragione per quanto riguardava la prima supposizione, e torto per la seconda. Quando superarono l’ultima duna, Pitt vide un uomo dalla pelle scura che stringeva in mano un giornale acceso e arrotolato a mo’ di torcia. Lo sconosciuto stava sfondando a calci il parabrezza per appiccare il fuoco all’interno della jeep. Non era vestito come gli altri: portava un complicato copricapo avvolto in modo da lasciar scoperti soltanto gli occhi, ed era avviluppato in una specie di caffettano fluente che gli ondeggiava intorno ai sandali. Non si accorse che Pitt si avvicinava rimorchiando Eva.
Pitt si fermò e le bisbigliò all’orecchio: «Se non ce la faccio, corra alla strada e chieda un passaggio alla prima macchina che passa». Poi, a voce alta: «Fermo!»
Sbalordito, l’uomo si voltò di scatto con un’espressione sorpresa ma minacciosa negli occhi. Nello stesso attimo in cui lanciò il grido, Pitt abbassò la testa e si buttò alla carica. L’uomo tese davanti a sé il giornale incendiato, ma Pitt l’aveva già colpito al petto con una testata. Lo sterno si spezzò e si sentì lo scricchiolio delle costole fratturate. Contemporaneamente, Pitt sferrò il pugno destro contro l’inguine dell’avversario.
Negli occhi dello sconosciuto la minaccia lasciò il posto allo shock. Poi un rantolo di sofferenza gli uscì dalla bocca spalancata assieme all’aria contenuta nei polmoni. L’attacco lo spinse all’indietro e lo fece volare in aria.
La torcia accesa passò roteando sopra il dorso di Pitt e piombò nella sabbia. L’espressione dell’uomo passò dallo shock alla sofferenza e al terrore. La faccia divenne di colpo paonazza e congestionata. Appena toccò il suolo, Pitt gli si inginocchiò accanto e gli frugò le tasche. Non trovò nulla: né armi, né documenti d’identità. Neppure qualche spicciolo o un pettinino.
«Chi ti ha mandato, amico?» chiese Pitt, mentre lo afferrava per la gola e lo scuoteva come un dobermann che ha catturato un sorcio.
La reazione non fu quella che si aspettava. Nonostante la sofferenza atroce, l’uomo gli lanciò uno sguardo sinistro… Uno sguardo che, stranamente, era quello di chi è riuscito ad avere l’ultima parola. Poi sogghignò mettendo in mostra una chiostra di denti bianchi… Ma un dente mancava. Le mascelle si aprirono leggermente, quindi si strinsero. Troppo tardi, Pitt comprese che aveva addentato una letale compressa di cianuro rivestita di gomma, nascosta sotto forma di un dente falso.
La schiuma filtrò dalle labbra dell’uomo. Il veleno era potentissimo; la morte fu rapida. Pitt ed Eva rimasero ad assistere, impotenti, mentre le forze lo abbandonavano. Gli occhi rimasero spalancati, resi vitrei dalla morte.
«È…?» Eva s’interruppe e ritentò. «È morto?»
«Credo si possa dire che è spirato», rispose Pitt senz’ombra di rimorso.
Eva gli si aggrappò al braccio per sostenersi. Nonostante il sole africano aveva le mani gelide e rabbrividiva. Era sconvolta. Non aveva mai visto morire nessuno. Si sentì assalire dalla nausea ma riuscì a dominare i conati di vomito.
«Ma perché si è ucciso?» mormorò. «A che scopo?»
«Per proteggere altri coinvolti nel fallito tentativo di assassinarla», rispose Pitt.
«Si è ucciso per non parlare?» chiese lei, incredula.
«Un fanatico, fedele al suo padrone», spiegò Pitt a voce bassa. «Sospetto che, se non avesse preso il cianuro di sua volontà, qualcuno l’avrebbe aiutato a farlo.»
Eva scosse la testa. «È una pazzia. Lei sta parlando d’una cospirazione.»
«Si renda conto della realtà, mia cara. Qualcuno si è dato molto da fare per eliminarla.» Pitt la fissò: gli sembrava una bambina spersa in una grande città. «Ha un nemico che non la vuole in Africa; e se desidera continuare a vivere, le consiglio di salire sul primo aereo in partenza per gli Stati Uniti.»
Eva lo guardò, stordita. «No, finché qui c’è gente che muore.»
«È dura da convincere, eh?» commentò lui.
«Si metta nei miei panni.»
«Meglio ancora, nei panni dei suoi colleglli. È possibile che anche loro siano nell’elenco delle persone da eliminare. Sarà meglio che torniamo al Cairo e li avvertiamo. Se questa storia ha qualche legame con le vostre ricerche e le vostre indagini, anche loro sono in pericolo.»
Eva abbassò lo sguardo sul morto. «Cosa intende fare di costui?»
Pitt alzò le spalle. «Buttarlo nel Mediterraneo con i suoi amici.» Poi un sorriso diabolico gli spuntò sul viso rude. «Mi piacerebbe vedere la faccia del mandante quando saprà che i suoi sicari sono spariti senza lasciar traccia e che lei continua ad andare in giro come se niente fosse.»
4.
I funzionari della sede della Backworld Expeditions al Cairo compresero che doveva essere successo qualcosa quando la comitiva di turisti partita per il «Safari nel Sahara» non arrivò puntuale alla favolosa città di Timbuctu. Ventiquattr’ore più tardi, i piloti degli aerei noleggiati per riportare i turisti a Marrakesh in Marocco incominciarono i voli di ricerca al nord, ma non videro traccia dei veicoli.
I timori si aggravarono quando, dopo tre giorni, continuarono a non arrivare notizie del maggiore Fairweather. Le autorità governative del Mali furono avvertite e collaborarono in pieno, inviando pattuglie di veicoli motorizzati e aerei a seguire il percorso attraverso il deserto previsto per il convoglio.
Il panico incominciò a regnare quando, nel corso di una ricerca intensiva che si protrasse per quattro giorni, i maliani non avvistarono anima viva e neppure le Land Rover. Un elicottero militare sorvolò Asselar e riferì di non aver visto altro che un villaggio morto e abbandonato.
Poi, il settimo giorno, una squadra di francesi che stava svolgendo una prospezione petrolifera in direzione sud, lungo la pista Transahariana, incontrò il maggiore Ian Fairweather. Il cielo era vuoto sopra la piana rocciosa. Il sole bruciava la sabbia e le onde di calore tremolavano nell’aria. I geologi francesi rimasero sbalorditi quando una apparizione confusa si presentò in mezzo al miraggio. Per un momento l’immagine parve aleggiare, poi ingrandì e rimpicciolì, assumendo proporzioni grottesche nell’aria rovente e capricciosa.
Quando le distanze si ridussero, i francesi distinsero qualcuno che agitava le braccia come un pazzo e veniva barcollando verso di loro. Poi l’uomo si fermò, ondeggiò come un turbine di vento e si accasciò lentamente sulla sabbia. Sconvolto, l’autista del camion Renault rischiò di frenare troppo tardi e fu costretto a sterzare per evitarlo. Si fermò in un vortice di polvere.
Fairweather era più morto che vivo. Era gravemente disidratato e il sudore gli si era incrostato addosso in uno strato sottile di cristalli di sale. Riprese i sensi quasi subito, quando i francesi riuscirono a versargli un po’ d’acqua nella bocca gonfia. Quattro ore più tardi, reidratato dall’ingestione di quasi dieci litri d’acqua, riuscì a raccontare con voce spezzata come era scampato al massacro di Asselar.
All’unico francese della squadra che capiva l’inglese, il racconto sembrava l’invenzione di un ubriaco… ma la convinzione con cui il maggiore si esprimeva sembrava incrollabile. Dopo una breve discussione, i soccorritori caricarono con cura Fairweather a bordo del camion e si diressero verso Gao. Arrivarono poco prima di notte e raggiunsero subito l’ospedale.
Dopo essersi assicurati che Fairweather fosse sistemato in un letto e assistito da un medico e da un’infermiera, i francesi giudicarono doveroso informare il capo delle forze della sicurezza locali; fu loro chiesto di scrivere un rapporto particolareggiato mentre il colonnello che comandava la sede di Gao avvertiva i suoi superiori a Bamako, la capitale.