Con loro grande sorpresa e indignazione, i francesi furono arrestati e incarcerati. La mattina dopo arrivò da Bamako un team di agenti che li interrogarono separatamente sul loro incontro con Fairweather. Le loro richieste di mettersi in contatto con il consolato francese furono ignorate. Quando i geologi rifiutarono di collaborare, l’interrogatorio assunse una piega sgradevole.
I francesi non erano i primi uomini che erano entrati nella sede cittadina dei servizi di sicurezza e che nessuno aveva mai più rivisto.
Quando i dirigenti della compagnia petrolifera, a Marsiglia, non ricevendo comunicazioni dalla loro squadra, si preoccuparono, pretesero che venisse effettuata una ricerca. Le forze della sicurezza maliane si affrettarono a rastrellare di nuovo il deserto, ma riferirono di aver trovato soltanto il camion Renault abbandonato.
I nomi dei geologi francesi e dei turisti dispersi della Backworld Expeditions furono semplicemente aggiunti all’elenco degli stranieri scomparsi e periti nell’immenso deserto.
Il dottor Haroun Madani stava sulla scalinata dell’ospedale di Gao, sotto il portico di mattoni ornato da fregi indecifrabili. Guardava nervosamente la strada polverosa che passava fra le vecchie costruzioni coloniali e le case a un solo piano di mattoni d’argilla. La brezza del nord portava un velo di sabbia sulla città che un tempo era stata capitale di tre grandi imperi, ma che adesso era soltanto la reliquia decaduta del colonialismo francese.
La chiamata alla preghiera della sera scendeva sulla città dai minareti della moschea. I fedeli non venivano più invitati alle devozioni da un muezzin che saliva la stretta scala del minareto e salmodiava dall’alto della balconata. Adesso il muezzin restava al piano terreno e innalzava le preghiere ad Allah e al profeta Maometto per mezzo di microfoni e altoparlanti.
A poca distanza dalla moschea, la luna a tre quarti si specchiava nel Niger. Ampio, spettacolare, con la corrente lenta e dolce, il fiume non era che l’ombra del suo corso d’un tempo. Era stato possente e profondo, ma i decenni di siccità ne avevano ridotto la portata, e adesso era un corso d’acqua relativamente modesto, solcato da flotte di piccole imbarcazioni a vela chiamate pinnaces. Una volta le sue acque avevano lambito la base della moschea; adesso fluivano torpide a circa due isolati di distanza.
Il popolo del Mali era un miscuglio dei discendenti dei francesi e dei berberi, che avevano la pelle più chiara degli arabi e dei mori del deserto dalla carnagione bruna, e degli africani, neri. Il dottor Madani era nero come il carbone. Aveva lineamenti negroidi, con gli occhi d’ebano incassati profondamente e il naso largo e schiacciato. Era un uomo sulla cinquantina, possente ma un po’ ingrassato in vita, con la testa massiccia e la mascella quadrata.
I suoi antenati erano schiavi mandingo, portati al nord dai marocchini che avevano invaso il territorio nel 1591. Quand’era bambino, i suoi genitori avevano coltivato le ricche terre a sud del Niger. Era stato allevato da un maggiore della Legione Straniera francese che l’aveva fatto studiare a Parigi, alla facoltà di medicina. Madani non aveva mai saputo perché e come fosse avvenuto tutto questo.
Il medico si irrigidì quando vide apparire in fondo alla strada i fari gialli di una automobile vecchia e rarissima. La macchina avanzò lungo la strada dissestata; l’elegante carrozzeria rosso-magenta offriva uno strano contrasto con le squallide, austere strutture di argilla. La Sédan Avions Voisin del 1936 aveva un’aria di dignitosa eleganza. La linea era una bizzarra combinazione di aerodinamica pre-seconda guerra mondiale, arte cubista e stile Frank Lloyd Wright. Era alimentata da un motore a sei cilindri silenzioso e resistente. Era un capolavoro dell’ingegneria, e un tempo era appartenuta al governatore generale, quando il Mali faceva parte dell’Africa occidentale francese.
A Madani quell’auto era assai familiare. Quasi tutti gli abitanti delle città del Mali conoscevano la macchina e il suo padrone, e rabbrividivano innervositi nel vederla passare. Il medico notò che era seguita da un’ambulanza militare e sospettò che ci fosse qualche problema. Si avvicinò e aprì la portiera posteriore mentre l’autista si fermava senza far rumore.
Un ufficiale d’alto rango si alzò dal sedile e scese. Era magro e indossava un’uniforme confezionata su misura, con le pieghe taglienti come lame. Diversamente da altri pezzi grossi africani sbilanciati da una massa enorme di medaglie e decorazioni, il generale Zateb Kazim sfoggiava solo un nastrino vede e oro sul petto della giacca. Intorno alla testa portava una versione ridotta del litham, il velo color indaco dei tuareg. Il viso aveva la carnagione color cioccolata e i lineamenti scolpiti dei mori, e gli occhi erano minuscoli punti di topazio circondati da oceani bianchi. Sarebbe parso quasi bello, se non fosse stato per il naso: anziché essere diritto e regolare, terminava in una punta rotonda e spiovente sui baffi radi che si prolungavano sino ai lati delle guance.
Il generale Zateb Kazim sembrava un cattivo uscito da un vecchio cartone animato della Warner Brothers. Non c’erano altri modi per descriverlo.
Con aria solenne e pomposa si tolse dall’uniforme un invisibile granello di polvere. Poi si degnò di prendere atto della presenza del dottor Madani con un vago cenno del capo.
«È pronto per il trasferimento?» chiese in tono misurato.
«Il signor Fairweather si è ripreso completamente dalla brutta avventura», rispose Madani. «Ora è sotto l’effetto dell’anestetico.»
«Ha visto o parlato con qualcuno da quando i francesi l’hanno portato qui?»
«L’abbiamo assistito soltanto io e un’infermiera d’una tribù di Tukulor che parla esclusivamente dialetto fulah. Non ha avuto altri contatti. Ho eseguito gli ordini ricevuti e l’ho fatto sistemare in una stanza privata, togliendolo dalla corsia. Posso aggiungere che tutta la documentazione relativa alla sua permanenza è stata distrutta.»
Kazim sembrava soddisfatto. «Grazie, dottore. Le sono riconoscente per la collaborazione.»
«Posso chiedere dove lo porterà?»
Il sorriso di Kazim sembrava il ghigno d’un teschio. «A Tebezza.»
«Non dirà sul serio!» mormorò Madani. «Non lo porterà nelle miniere d’oro della colonia penale di Tebezza! Solo i traditori e gli assassini vi vengono mandati a morire. Quell’uomo è un cittadino straniero. Cos’ha fatto per meritare una morte lenta nelle miniere?»
«Non ha molta importanza.»
«Che reato ha commesso?»
Kazim squadrò il suo interlocutore come se lo giudicasse un insetto fastidioso. «Non lo chieda», disse freddamente.
Un pensiero agghiacciante passò nella mente di Madani. «E i francesi che hanno incontrato Fairweather e l’hanno portato qui?»
«Hanno avuto lo stesso destino.»
«Nessuno di loro sopravvivrà più di qualche settimana nelle miniere.»
«È meglio che limitarsi a giustiziarli», rispose Kazim alzando le spalle. «È meglio che lavorino per quel po’ di vita che gli resta, così almeno fanno qualcosa di utile. Una riserva aurea è importante per la nostra economia.»
«Lei è un uomo molto pratico, generale», disse Madani. Sentiva in bocca l’amaro di quelle parole servili. Il potere sadico di Kazim, giudice, giuria e boia, era una realtà ben nota della vita del Mali.
«Mi fa piacere che sia d’accordo, dottore.» Kazim fissò Madani come se fosse un detenuto sul banco degli imputati. «Per la sicurezza del nostro Paese le consiglio di dimenticare il signor Fairweather e di cancellare ogni ricordo della sua presenza.»
Madani annuì. «Come desidera.»
«Le auguro che nessun male colpisca la sua gente e i suoi averi.»
Il medico aveva capito alla perfezione il pensiero di Kazim Le parole del saluto rituale dei nomadi avevano colpito nel segno. Madani aveva una famiglia numerosa. Finché fosse stato zitto, tutti sarebbero vissuti in pace. L’alternativa… era meglio non pensarci.