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Qualche minuto più tardi Fairweather, debitamente anestetizzato, fu portato fuori dell’ospedale su una barella sorretta da due agenti del servizio di sicurezza e caricato a bordo dell’ambulanza. Il generale rivolse a Madani un saluto distratto e salì a bordo della Citroen.

Mentre i due veicoli si allontanavano nella notte, una paura agghiacciante scorse nelle vene del dottor Madani. Si sorprese a domandarsi a quale terribile tragedia aveva partecipato involontariamente. Poi si augurò di non saperlo mai.

5.

In una delle suite affrescate del Nile Hilton, seduto su un divano di cuoio, il dottor Frank Hopper ascoltava con attenzione. Sulla poltrona al di là del tavolino, Ismail Yerli fumava pensosamente una pipa di schiuma con il fornello intagliato a forma di una testa inturbantata di sultano.

Nonostante i rumori del traffico del Cairo che filtravano attraverso le finestre chiuse, Eva non riusciva ancora ad accettare l’incubo dell’a faccia a faccia con la morte. Il subconscio aveva già cominciato a offuscare il ricordo. Ma la voce del dottor Hopper la riportò al presente, alla realtà della sala per le conferenze.

«Sei assolutamente sicura che quegli uomini volessero ucciderti?»

«Assolutamente», rispose Eva.

«Secondo la tua descrizione, erano negri africani», disse Ismail Yerli.

Eva scosse la testa. «Non ho detto che erano negri, ma solo che avevano la pelle scura. I lineamenti del viso erano più aguzzi, più definiti… Sembravano ibridi fra arabi e indiani. Quello che ha incendiato la mia macchina indossava una tunica sciolta e un copricapo complicato. Ho potuto vedere soltanto gli occhi d’ebano e il naso aquilino.»

«Il copricapo era di cotone, avvolto diverse volte intorno alla testa e al mento?» chiese Yerli.

Eva annuì. «Sembrava un pezzo di stoffa molto lungo.»

«E il colore?»

«Azzurro. Un azzurro cupo, quasi come l’inchiostro.»

«Indaco?»

«Sì», rispose Eva. «Direi che indaco è la parola esatta.»

Per qualche istante Ismail Yerli rimase chiuso in una riflessione silenziosa. Era il coordinatore e l’esperto di logistica del team dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Magro e solido, efficiente, con un amore quasi patologico per i dettagli, era un individuo abile e dotato di una grande esperienza politica. Veniva dalla città portuale mediterranea di Antalya, in Turchia, e vantava di avere nelle vene sangue curdo, perché era nato e cresciuto in Cappadocia. Era musulmano ma non molto osservante: da anni non metteva piede in una moschea. Come molti altri turchi aveva una folta, ruvida capigliatura nera, accompagnata da sopracciglia ispide che si congiungevano sopra il naso e da un paio di baffi enormi. Aveva un’indole spiritosa che non l’abbandonava mai, ma la bocca, sempre schiusa in un sorriso, nascondeva un temperamento molto serio.

«Tuareg», sentenziò alla fine.

Aveva parlato a voce così bassa che Hopper si tese per sentire meglio. «Chi?»

Yerli alzò gli occhi verso il canadese che era responsabile del team. Hopper era un uomo tranquillo che parlava poco e ascoltava molto: il suo esatto contrario, pensò il turco. Hopper era grande e grosso, con la faccia rubizza e una gran barba. Per sembrare il vichingo Erik il Rosso gli mancavano soltanto la scure da combattimento e l’elmo conico ornato di corna. Scrupoloso e ricco di risorse, era considerato, dagli esperti internazionali del suo campo, uno dei due massimi tossicologi del mondo.

«Tuareg», ripeté Yerli. Un tempo erano stati i potenti guerrieri nomadi del deserto e avevano vinto grandi battaglie contro gli eserciti dei francesi e dei mori. E forse erano stati anche i più grandi banditi romantici. Ma ora non facevano più scorrerie: allevavano capre e mendicavano nelle città ai margini del Sahara per poter sopravvivere. Diversamente dagli arabi musulmani, fra loro erano gli uomini a portare il velo, un drappo che misurava più d’un metro di lunghezza.

«Ma perché una tribù nomade del deserto voleva eliminare Eva?» chiese Hopper. «Non ne vedo il motivo.»

Yerli scosse la testa. «Sembra che almeno uno di loro non la voglia qui. E, inoltre, non dimentichiamo un particolare importante: gli altri team che stanno indagando sugli avvelenamenti da tossine nel deserto sud-occidentale.»

«A questo punto del nostro progetto», disse Hopper, «non sappiamo neppure se la colpa sia della contaminazione. La malattia misteriosa potrebbe avere una causa virale o batterica.»

Eva annuì. «È quel che ha detto anche Pitt.»

«Chi?» domandò Hopper per la seconda volta.

«Dirk Pitt, l’uomo che mi ha salvato la vita. Anche lui ha detto che qualcuno non mi vuole in Africa. E anche che tutti voi potreste figurare nell’elenco delle persone da eliminare.»

Yerli alzò le mani. «Incredibile. Quello pensa che abbiamo a che fare con la mafia.»

«È stata una fortuna che fosse nelle vicinanze», commentò Hopper.

Yerli lanciò una nuvola di fumo azzurrino dalla pipa di schiuma e la fissò con aria assorta. «È stata una coincidenza più che opportuna, tenendo conto che era l’unico estraneo presente su quel lungo tratto di costa e che ha avuto il coraggio di affrontare un terzetto di assassini. È stato quasi un miracolo oppure…» Yerli prolungò di proposito la pausa. «Oppure una presenza premeditata.»

Eva sgranò gli occhi con un’espressione scettica. «Se stai pensando che si sia trattato d’una messa in scena, Ismail, puoi scordartelo.»

«Forse ha inscenato la commedia per spaventarti e convincerti a tornare negli Stati Uniti.»

«L’ho visto uccidere tre uomini. Credetemi, non è stata una commedia.»

«Si è fatto vivo con te dopo averti accompagnata all’albergo?» chiese Hopper.

«Ha lasciato soltanto un messaggio per invitarmi a cenare con lui questa sera.»

«E tu continui a credere che fosse un buon samaritano di passaggio», insistette Yerli.

Eva non gli badò. Si rivolse a Hopper. «Pitt mi ha detto di essere in Egitto per un’esplorazione archeologica del Nilo organizzata dalla National Underwater and Marine Agency. Non ho molti motivi per dubitarne.»

Hopper si rivolse a Yerli. «Questo dovrebbe essere piuttosto facile da accertare.»

Yerli annuì. «Telefonerò a un amico; è un biologo marino della NUMA.»

«Ma l’interrogativo continua a essere uno: perché?» mormorò Hopper, quasi distrattamente.

Il turco scrollò le spalle. «Se il tentativo di uccidere Eva faceva parte di una cospirazione, può darsi che si inserisca in un piano per spaventarci e costringerci a rinunciare alla missione.»

«Sì, ma abbiamo cinque diversi team di ricercatori, ognuno composto da sei membri, che si stanno dirigendo verso il deserto meridionale. Si sparpaglieranno in cinque nazioni, dal Sudan alla Mauritania. Nessuno ha imposto la nostra presenza: sono stati i rispettivi governi a chiedere aiuto per trovare una soluzione alla strana malattia che dilaga nelle loro terre. Siamo stati invitati come ospiti, non siamo nemici indesiderati.»

Yerli lo fissò. «Stai dimenticando una cosa, Frank. C’era un governo che non voleva saperne di noi.»

Hopper annuì, scuro in volto. «Hai ragione. Avevo dimenticato il presidente Tahir del Mali. Ha esitato molto prima di permetterci di varcare i suoi confini.»

«Probabilmente è stato il generale Kazim», disse Yerli. «Tahir è un presidente-fantoccio. È Zateb Kazim, l’uomo che detiene veramente il potere.»

«E che cos’ha contro un gruppo di innocui biologi che cercano solo di salvare vite umane?» chiese Eva.

Yerli allargò le braccia. «Forse non lo sapremo mai.»

«Mi sembra una coincidenza significativa», disse Hopper a bassa voce, «il fatto che molte persone, soprattutto europei, siano sparite con troppa regolarità, durante l’ultimo anno, nel deserto del Mali settentrionale.»