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In una sala da ballo, in un’altra parte dell’albergo, il dottor Frank Hopper stava per concludere la conferenza stampa. C’era parecchia gente: un piccolo esercito di corrispondenti che rappresentavano i quotidiani occidentali e quattro agenzie stampa lo tempestava di domande sotto i riflettori della televisione egiziana.

«Ritiene che l’inquinamento sia molto diffuso, dottor Hopper?» chiese una inviata della Reuters.

«Non lo sapremo fino a che i nostri team non saranno sul posto e non avranno avuto il modo di studiare l’epidemia.»

Un uomo armato di registratore alzò la mano. «Si conosce la fonte del contagio?»

Hopper scosse la testa. «In questo momento non sappiamo da dove provenga.»

«È possibile che sia dovuto all’impianto francese di smaltimento di rifiuti tossici che si trova nel Mali?»

Hopper si accostò a una carta geografica del Sahara meridionale appoggiata a un grande cavalletto, prese una bacchetta, la puntò su una desolata regione desertica nella zona nord del Mali. «L’impianto francese si trova qui, a Fort Foureau, a oltre duecento chilometri dall’area più vicina in cui sono stati segnalati casi di contaminazione. È troppo lontano perché possa essere la fonte diretta.»

Si alzò il corrispondente dello Spiegel. «L’inquinamento non potrebbe essere portato dai venti?»

Hopper scosse la testa. «Non è possibile.»

«Come fa a esserne sicuro?»

«Durante le fasi della progettazione e della costruzione, i miei colleghi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e io siamo stati consultati dagli ingegneri della Massarde Entreprises de Energie Solaire, proprietaria dell’impianto. Tutti i rifiuti pericolosi vengono distrutti mediante l’energia solare e ridotti in vapori innocui. La produzione viene controllata di continuo. Non restano emissioni tossiche che possano venire trasportate dal vento e giungere a causare infezioni a centinaia di chilometri di distanza.»

Un giornalista della televisione egiziana allungò il microfono verso Hopper. «Avete la collaborazione delle nazioni del deserto in cui contate di operare?»

«Quasi tutte ci hanno invitati a braccia aperte», fu la risposta di Hopper.

«Poco fa ha accennato a una certa riluttanza da parte del presidente Tahir del Mali a concedere al suo team il permesso di operare nel Paese.»

«È vero. Ma quando saremo sul posto e daremo prova delle nostre intenzioni umanitarie, prevedo che cambierà idea.»

«Quindi non teme di esporsi a pericoli curiosando negli affari del governo di Tahir?»

La voce di Hopper si caricò di collera. «Il vero pericolo sta nella mentalità sbagliata dei suoi consiglieri, i quali fingono che la malattia non esista per il semplice fatto che ufficialmente la ignorano.»

«Tuttavia lei pensa che il suo team non correrà rischi viaggiando nel Mali?» chiese la corrispondente della Reuters.

Hopper sorrise soddisfatto. Le domande dei giornalisti avevano assunto la direzione che sperava. «Se dovesse accadere una tragedia, signore e signori dei media, sono certo che provvederete a indagare e ad additare i colpevoli allo sdegno e alla riprovazione del mondo.»

Dopo cena, Pitt accompagnò Eva fino alla porta della sua stanza. Lei pasticciò nervosamente con la chiave. Si sentiva insicura. Aveva un motivo, si disse, per invitarlo a entrare. Glielo doveva… e lo desiderava. Ma seguiva i princìpi della vecchia scuola, e le era difficile correre a letto con ogni uomo che mostrava interesse per lei, anche se quest’uomo le aveva salvato la vita.

Pitt notò il lieve rossore che le saliva dal collo al volto, e la guardò negli occhi, azzurri come i deli dei mari del Sud. La prese per le spalle e l’attirò dolcemente a sé. Eva si tese un po’ ma non resistette. «Rimanda la partenza.»

Eva girò la testa. «Non posso.»

«Forse non ci rivedremo più.»

«Sono legata al mio lavoro.»

«E quando sarai libera?»

«Tornerò dalla mia famiglia a Pacific Grove, in California.»

«È una zona molto bella. Ho partecipato spesso con una macchina d’epoca al concorso d’eleganza di Pebble Beach.»

«In giugno è splendido», disse Eva. Le tremava un po’ la voce.

Pitt sorrise. «Allora saremo tu, io e la baia di Monterey.»

Era come se fossero diventati amici durante un viaggio in mare: un breve interludio che aveva gettato i semi di un’attrazione reciproca. Pitt la baciò dolcemente e indietreggiò. «Stai alla larga dai guai. Non voglio perderti.»

Poi si girò e si avviò verso gli ascensori.

7.

Da secoli e secoli gli egiziani e la vegetazione combattono per conservare una fascia preziosa di territorio fra le acque azzurro-peltro del Nilo e le sabbie giallobrunastre del Sahara. Fra tutti i grandi fiumi del mondo, il Nilo, che scorre per 6500 chilometri dalle sorgenti nell’Africa centrale fino al Mediterraneo, è l’unico che fluisca verso nord. Antichissimo, onnipresente, sempre vivo, il Nilo è estraneo nell’arido paesaggio nordafricano come potrebbe esserlo nell’atmosfera fumante del pianeta Venere.

Lungo il fiume era arrivata la stagione torrida. Il caldo pesava sull’acqua come una coltre opprimente che avanzava dall’immenso deserto occidentale. All’alba, il sole saliva dall’orizzonte con l’affondo rovente di un attizzatoio e spandeva una leggera brezza simile al soffio uscito da una fornace aperta.

La serenità del passato incontrò la tecnologia del presente quando una feluca a vela latina, con quattro ragazzi a bordo, incrociò l’agile imbarcazione da ricerca dotata degli apparecchi elettronici più sofisticati. Per nulla infastiditi dal caldo, i ragazzi risero e si sbracciarono per salutare l’imbarcazione color turchese che discendeva il fiume.

Pitt alzò gli occhi dallo schermo ad alta risoluzione del subbottom profiler e rispose al saluto affacciandosi dal grande oblò. Il tremendo caldo esterno non lo infastidiva: l’interno del vascello per le ricerche aveva l’aria condizionata, e lui stava comodamente seduto davanti agli apparecchi di rilevamento computerizzati, bevendo un tè freddo. Seguì con lo sguardo la feluca per qualche istante e provò quasi un senso d’invidia per i ragazzi che si muovevano svelti sul ponte e spiegavano la vela per approfittare della brezza che soffiava in senso contrario alla corrente.

Poi concentrò di nuovo l’attenzione sul monitor quando un’anomalia incominciò a insinuarsi sullo schermo in immagini colorate. Il sensore verticale del subbottom profiler registrava un contatto a una certa profondità, sotto i sedimenti del fondo. In un primo momento apparve come un grumo indistinto, ma quando l’immagine fu ingrandita automaticamente incominciò a delinearsi il contorno di una nave antica.

«Siamo sul bersaglio», riferì Pitt. «Segna: numero novantaquattro.»

Al Giordino batté un codice sulla console. Immediatamente la configurazione del fiume, le costruzioni artificiali e le caratteristiche naturali oltre la riva apparvero sul display. Un altro codice, e il sistema di posizionamento laser via satellite indicò con estrema precisione l’ubicazione dell’immagine in rapporto al paesaggio circostante.

«Numero novantaquattro tracciato e registrato», annunciò Giordino.

Basso, bruno, compatto come una colonna di cemento, Albert Giordino aveva due scintillanti occhi color noce sotto una criniera disordinata di riccioli neri. Se avesse avuto una barba fluente e un sacco di giocattoli, pensava spesso Pitt, Giordino avrebbe potuto essere la versione etnisca di un giovane Babbo Natale.

Era straordinariamente svelto per un uomo così muscoloso e sapeva battersi come una tigre; tuttavia soffriva le pene dell’inferno quando era costretto a chiacchierare con le donne. Giordino e Pitt si conoscevano dai tempi in cui avevano frequentato insieme le medie superiori; poi avevano giocato a rugby all’Accademia Aeronautica e avevano prestato servizio nelle ultime fasi della guerra del Vietnam. A un certo momento della loro carriera, su richiesta dell’ammiraglio James Sandecker, direttore capo della National Underwater and Marine Agency, erano stati prestati temporaneamente alla NUMA… Un «prestito» che ormai durava da nove anni.