Quello avrebbe dovuto essere il suo ultimo tentativo sulle lunghe distanze, prima di sposare l’uomo di cui era innamorata fin dall’infanzia, proprietario di un allevamento confinante con quello dei genitori. Aveva conquistato l’aria, ma per lei quelle imprese avevano progressivamente perso interesse e adesso era decisa a sistemarsi e a metter su famiglia. Inoltre, come molti altri pionieri dell’aviazione, aveva scoperto che, anche se per i piloti c’era molta gloria, c’erano pochissimi posti di lavoro retribuiti.
Era stata sul punto di annullare il volo; tuttavia, ostinata come sempre, alla fine aveva deciso di compierlo. Adesso il mondo dell’aviazione attendeva l’annuncio del suo salvataggio ma, con il passare dei giorni, la speranza diventava sempre più vana.
Kitty rimase priva di sensi fino allo spuntare del giorno seguente. Quando si strappò all’abisso di tenebra e fissò lo sguardo sul troncone spezzato dell’elica il sole stava già incominciando a bruciare il deserto. La vista le si offuscò. Cercò di scuotere la testa per scacciare la nebbia e gemette per il dolore che le trafiggeva le tempie. Si toccò la fronte, con cautela. La pelle non era Ulcerata, ma c’era un grosso bernoccolo all’attaccatura dei capelli. Controllò per accertare altre possibili lesioni e scoprì la caviglia fratturata che si era gonfiata all’interno dello stivaletto, e la distorsione al ginocchio.
Sganciò la cintura di sicurezza, spalancò il portello della cabina e scese adagio al suolo. Mosse qualche passo zoppicando, poi si accasciò sulla sabbia e valutò la situazione.
Non era scoppiato un incendio, per sua fortuna, ma il fedele Fairchild non avrebbe più volato. Il motore, con tre cilindri incrinati dall’urto contro il pendio del burrone, era piegato verso l’alto a un angolo assurdo. Le ali erano sorprendentemente intatte, e così pure la fusoliera, ma il carrello era schiacciato e le ruote distorte verso l’esterno.
Era impossibile pensare di riparare l’apparecchio e proseguire il volo. Adesso il problema consisteva nell’accertare la posizione. Non sapeva dove fosse precipitata. Era caduta in quello che in Australia chiamavano billabong, il letto asciutto di un fiume che si riempie stagionalmente… Ma quello, con ogni probabilità, non vedeva una goccia d’acqua da almeno un secolo. La tempesta di sabbia era cessata ma le pareti della piccola gola in cui si trovava erano alte circa sei metri, e non riusciva a scorgere ciò che stava oltre. Ma era meglio così. Il paesaggio era incolore, desolato, deprimente.
La sete l’assalì all’improvviso. Il pensiero dell’acqua le ricordò la borraccia. Tornò al portello della cabina appoggiandosi su una gamba sola, si sporse all’interno e la trovò sotto il sedile. Aveva una capacità di poco più di due litri, ed era piena per due terzi scarsi. Kitty calcolò che avrebbe potuto considerarsi fortunata se l’acqua fosse durata più di due o tre giorni, anche bevendo pochi sorsi per volta.
Decise che doveva tentare di raggiungere un villaggio oppure la pista. Sarebbe stato un suicidio restare nei pressi del relitto. A meno che un aereo l’avesse sorvolato, il Fairchild sarebbe risultato invisibile. Tremando, si stese all’ombra dell’apparecchio e si rassegnò alla situazione.
Kitty scoprì ben presto l’incredibile contrasto delle temperature sahariane. Durante il giorno l’aria saliva a 49 gradi centigradi, e di notte precipitava a 4 gradi. Il freddo della notte era una tortura quanto il caldo del giorno. Dopo aver sofferto per dodici ore il sole bruciante, scavò una tana nella sabbia e vi ci si infilò. Si raggomitolò tremando e dormì un sonno agitato fino all’alba.
La mattina del secondo giorno, prima che il sole cominciasse a picchiare, si sentì abbastanza forte per incominciare i preparativi e abbandonare l’aereo. Improvvisò una gruccia con un supporto delle ali e un ombrello rudimentale con la tela. Si servì degli attrezzi per togliere la bussola dal quadro degli strumenti. Nonostante le lesioni, era decisa a raggiungere la pista. Non c’erano alternative.
Ora che aveva un piano, Kitty si sentiva un po’ meglio. Prese il giornale di bordo e incominciò a scrivere la prima pagina di quello che doveva essere il resoconto del suo tentativo eroico e tenace di sopravvivere nelle peggiori condizioni immaginabili. Incominciò con la descrizione dell’incidente e disegnò il percorso che intendeva seguire verso sud lungo il billabong fino a quando avesse trovato un punto che offriva la possibilità di risalire la sponda senza difficoltà. Una volta all’aperto, contava di puntare verso est, fino a incontrare la pista o una tribù di nomadi. Poi strappò il foglio e lo fissò al quadro dei comandi, in modo che i soccorritori potessero seguire le sue tracce, nell’eventualità improbabile che l’aereo venisse scoperto prima di lei.
Il caldo diventava rapidamente insopportabile. La situazione era peggiorata dalle pareti del canalone che riflettevano e intensificavano i raggi del sole come un crematorio all’aperto. Le era difficile respirare e doveva lottare contro la smania tremenda di bere a grandi sorsi l’acqua preziosa.
C’era ancora una cosa da fare, prima di mettersi in cammino. Si slacciò lo stivale che le copriva la caviglia fratturata e lo tolse. Il dolore le strappò un gemito; dovette lasciare che si placasse prima di fasciare la caviglia con la sciarpa di seta. Poi, con la bussola e la borraccia fissate alla cintura, l’ombrello tenuto alto e la gruccia sotto un braccio, Kitty si avviò sotto il sole feroce del Sahara, zoppicando coraggiosamente sulla sabbia dell’antico letto del fiume.
Le ricerche di Kitty Mannock continuarono a intervalli per anni, ma nessuno vide mai lei o l’aereo. Non furono trovati indizi, nessuna carovana incontrò nel deserto uno scheletro vestito con indumenti da volo in uso negli anni’30, nessun nomade s’imbatté nell’aereo sfasciato. La scomparsa di Kitty diventò uno dei grandi misteri dell’aviazione.
Le voci sulla sua sorte ingigantirono e si diffusero nel corso dei decenni. Alcuni affermavano che era sopravvissuta ma, colpita da amnesia, viveva sotto un altro nome in Sud America; e molti pensavano che fosse stata catturata e ridotta in schiavitù da una tribù di tuareg. Solo il volo di Amelia Earhart nell’ignoto suscitò un maggior numero di ipotesi.
Il deserto conservò il suo segreto. Le sabbie divennero il sudario funebre di Kitty Mannock. L’enigma del suo volo verso il nulla era destinato a restare insoluto per mezzo secolo.
PARTE PRIMA
FRENESIA
1.
Dopo aver viaggiato nel deserto per giorni o settimane senza vedere un animale o incontrare esseri umani, la civiltà, per quanto limitata o primitiva, costituisce una sorpresa sensazionale. Per le undici persone a bordo delle cinque Land Rover e per i cinque autisti-guide, la vista di un habitat artificiale fu un grande sollievo. Accaldati e sporchi, esausti dopo una settimana di viaggio in mezzo alla desolazione, gli avventurosi turisti che partecipavano ai dodici giorni del «Safari nel Sahara» organizzato dalla Backworld Explorations erano sin troppo felici di vedere altri esseri umani e di trovare acqua a sufficienza per un bagno ristoratore.
Avvistarono il villaggio di Asselar, isolato nella regione del Sahara centrale, nella nazione africana del Mali. Un gruppo di case di argilla raccolte intorno a un pozzo sul fondo asciutto di quello che doveva essere stato anticamente il letto di un fiume. Sparse intorno alla periferia c’erano le rovine sgretolate di altre cento o più case abbandonate e, più oltre, le basse scarpate che scendevano al di sotto della piana alluvionale. Da una certa distanza era quasi impossibile vedere il villaggio, perché gli edifici usurati dal tempo si fondevano perfettamente con il paesaggio austero e incolore.