«Bene, eccola là», disse il maggiore Ian Fairweather, responsabile del safari, ai turisti stanchi e impolverati che scendevano dalle Land Rover e si raccoglievano intorno a lui. «A guardarla non direste mai che Asselar era un tempo un crocevia culturale dell’Africa occidentale. Per cinque secoli fu una tappa importante per le grandi carovane di mercanti e di schiavisti che passavano per raggiungere il nord e l’est.»
«Qual è stata la causa del declino?» chiese una graziosa canadese in prendisole e calzoncini.
«Una combinazione di guerre e conquiste da parte dei mori e dei francesi, l’abolizione dello schiavismo, ma soprattutto il fatto che i percorsi commerciali si spostarono verso sud e verso ovest, in direzione delle coste. Il colpo mortale venne una quarantina d’anni fa, quando i pozzi cominciarono a inaridirsi. L’unico ancora in funzione che serve la cittadina ha una profondità di circa cinquanta metri.»
«Non è esattamente un paradiso metropolitano», mormorò un uomo grasso dall’accento spagnolo.
Il maggiore Fairweather sorrise con uno sforzo. Era un ex Royal Marine, alto e magro; fumava di continuo lunghe sigarette con filtro e parlava in toni secchi, come se ripetesse frasi imparate a memoria. «Oggi ad Asselar risiedono solo poche famiglie di tuareg che hanno rinunciato al nomadismo. Vivono soprattutto grazie a piccole greggi di capre, tratti di terreno sabbioso irrigati a mano con l’acqua del pozzo, e qualche manciata di gemme trovate nel deserto, che lavorano e portano a dorso di dromedario nella città di Goa, dove le vendono come souvenir.»
Un elegante avvocato londinese, impeccabile nella sahariana e nel casco tropicale, puntò il bastone d’ebano verso il villaggio. «Sembra abbandonato. Mi sembra di ricordare che il dépliant promettesse alla nostra comitiva ‘il fascino romantico della musica del deserto e delle danze indigene intorno ai fuochi da campo di Asselar’.»
«Il nostro scout ha sicuramente preso tutti gli accordi necessari per il comfort e gli svaghi degli ospiti», assicurò Fairweather con disinvolta sicurezza. Per un attimo fissò il sole che calava dietro il villaggio. «Fra poco sarà buio. È meglio che ci affrettiamo.»
«C’è un albergo?» chiese la signora canadese.
Fairweather represse a stento una smorfia. «No, signora Lansing. Ci accamperemo fra le rovine appena oltre l’abitato.»
I turisti gemettero all’unisono. Avevano sperato di trovare letti soffici e bagni… Lussi che probabilmente Asselar non aveva mai conosciuto.
Risalirono sui veicoli, e percorsero una pista che si addentrava nella valle fino alla via principale attraverso il villaggio. Più si avvicinavano e più diventava difficile immaginare un passato glorioso. Le strade erano vicoli stretti e sabbiosi. Sembrava un villaggio morto, dominato dall’odore della sconfitta. Nell’imbrunire non si scorgeva una luce, e non si sentiva neppure l’abbaiare di un cane. Nelle costruzioni d’argilla non si vedevano segni di vita. Era come se gli abitanti avessero portato via tutto ciò che possedevano e fossero spariti nel deserto.
Fairweather incominciava a sentirsi a disagio. C’era qualcosa che non andava. Non c’era traccia dello scout che li aveva preceduti. Per un momento intravide un grosso quadrupede che spariva oltre una porta. Ma fu un’impressione fuggevole, e Fairweather pensò che fosse semplicemente l’ombra delle Land Rover.
Quella sera i suoi clienti avrebbero mugugnato, pensò. La colpa era dei pubblicitari che esageravano il fascino del deserto. «L’occasione eccezionale di una spedizione attraverso le sabbie del Sahara», recitò sottovoce. Sarebbe stato pronto a scommettere un anno di stipendio che l’autore del testo non si era mai avventurato oltre la costa di Dover.
Erano a un’ottantina di chilometri dalla Transahariana e a duecentoquaranta dalla città di Gao, sul fiume Niger. La comitiva trasportava viveri, acqua e carburante più che sufficienti per il resto del viaggio, quindi Fairweather teneva presente la possibilità di aggirare Asselar, se fosse sorto un problema imprevisto. La sicurezza dei clienti della Backworld Explorations veniva al primo posto; in ventotto anni di attività non ne avevano mai perduto uno, a meno di considerare quell’idraulico americano in pensione che aveva fatto indispettire un dromedario e per la sua stupidità s’era buscato un calcio in testa.
Fairweather incominciò a chiedersi perché non si vedevano in giro né dromedari né capre. Non c’erano neppure orme nelle vie sabbiose, ma soltanto strani segni di artigli e di solchi rotondi che procedevano paralleli, come se qualcuno avesse trainato tronchi gemelli. Le casette della tribù, costruite in pietra e rivestite di fango rossastro, sembravano più malconce dall’ultima volta che Fairweather era passato di fi durante l’ultimo safari, non più di due mesi prima.
Sì, assolutamente, c’era qualcosa che non andava. Anche se, per qualche strana ragione, gli abitanti avessero deciso di abbandonare il villaggio, il suo scout avrebbe dovuto essere lì ad attendere. In tutti gli anni in cui avevano viaggiato insieme nel Sahara, Ibn Hajib non l’aveva mai deluso. Decise di lasciare che i suoi clienti riposassero un po’ accanto al pozzo e si ripulissero, prima di proseguire per un tratto nel deserto e accamparsi. Meglio essere prudenti, pensò, mentre prendeva il vecchio semiautomatico Patchett da uno scomparto fra i sedili e se lo piazzava fra le ginocchia. Avvitò alla canna un silenziatore Invicta che dava all’arma l’aspetto di un tubo allungato con un caricatore curvo.
«Qualcosa non va?» chiese la signora Lansing, che viaggiava insieme col marito sulla Land Rover di Fairweather.
«Una semplice precauzione per mettere in fuga i mendicanti», mentì il maggiore.
Fermò il fuoristrada e tornò indietro a piedi per avvertire gli altri autisti di tenere gli occhi aperti. Poi risalì a bordo e proseguì fino al centro del villaggio, passando per le viuzze disposte senza un ordine particolare. Alla fine si fermò sotto una solitaria palma da dattero al centro della piazza del mercato, presso un pozzo di pietra di quattro metri di diametro.
Fairweather studiò nell’ultima luce del giorno il terreno sabbioso intorno al pozzo. Era circondato dalle stesse tracce stranissime che aveva notato nelle strade. Scrutò l’interno del pozzo e scorse appena un minuscolo riflesso nelle viscere dell’arenaria. Ricordava che l’acqua aveva un alto contenuto di minerali, che questo le dava un gusto metallico e la colorava di un verde lattiginoso. Tuttavia aveva placato la sete di molti esseri viventi, umani e animali, nel corso dei secoli. Non lo preoccupava che fosse o no igienica per gli stomaci dei suoi clienti: tanto, doveva servire soltanto per ripulirsi dal sudore e dalla polvere, non certo per bere.
Ordinò agli autisti di stare in guardia, poi mostrò ai turisti come dovevano calare il secchio di pelle per mezzo di un antico argano a mano legato a una corda sfrangiata. I turisti dimenticarono l’immagine esotica della musica e delle danze nel deserto alla luce dei fuochi dei bivacchi mentre ridevano e sguazzavano come ragazzini sotto un’innaffiatrice in un caldo pomeriggio estivo. Gli uomini si spogliarono fino alla cintura e si versarono l’acqua sulla pelle nuda; le donne pensavano soprattutto a lavarsi i capelli.
La scena piuttosto comica era illuminata bizzarramente dai fari delle Land Rover che, come proiettori cinematografici, gettavano ombre guizzanti sui muri silenziosi del villaggio. Mentre gli autisti assistevano ridendo a quello spettacolo, Fairweather si avviò lungo una delle vie ed entrò in una casa accanto alla moschea. I muri erano vecchi, usurati dal tempo. L’entrata conduceva attraverso una breve galleria ad arco fino a un cortile talmente ingombro di rifiuti che faticò a superarlo.
Fairweather girò il fascio di luce della torcia elettrica intorno alla stanza principale dell’edificio. Le pareti erano d’un bianco polveroso, il soffitto era alto, con le travature scoperte sopra le stuoie come il latilla viga dei soffitti delle costruzioni di Santa Fe nel sud-ovest americano. Nei muri c’erano numerose nicchie per riporvi gli oggetti; ma erano tutte vuote. Il pavimento era completamente coperto di cocci e frammenti e i mobili erano in disordine.