Pitt guardava l’immenso vuoto che si estendeva al di là della spaccatura e sentiva che la loro lotta epica era giunta alla fine. Avevano percorso soltanto trenta chilometri e ne restavano ancora cinquanta.
Giordino girò la testa e guardò Pitt che era ancora in piedi ma barcollava esausto, scrutando l’orizzonte orientale, come se vedesse la meta irraggiungibile.
Per quanto fosse esausto, Pitt aveva ancora un aspetto magnifico. Il volto severo, la statura imponente, i penetranti occhi opalini, il naso imperioso come il rostro di un rapace, la testa avvolta in un asciugamani bianco impolverato da cui spuntavano le ciocche dei capelli neri non gli davano l’aspetto di un uomo sconfitto di fronte alla morte certa.
Il suo sguardo scrutò il fondo della gola in entrambe le direzioni, e si arrestò mentre un’espressione perplessa spuntava negli occhi che brillavano attraverso la stretta apertura nel turbante. «Ho perso la ragione», bisbigliò.
Giordino rialzò la testa. «Io l’ho persa già da una ventina di chilometri.»
«Giuro che vedo…» Pitt scosse la testa e si soffregò gli occhi. «Dev’essere un miraggio.»
Giordino guardò l’immensa fornace deserta. C’erano specchi d’acqua che tremolavano in lontananza sotto le onde di calore. La visione immaginaria di ciò che desiderava con tanta disperazione era insopportabile. Si voltò.
«L’hai visto?» chiese Pitt.
«Con gli occhi chiusi», disse Giordino con voce stridente, «vedo un saloon con tante ballerine che mi offrono enormi boccali di birra ghiacciata.»
«Io parlo sul serio.»
«Anch’io. Ma se ti riferisci al falso lago su quella piana, lascia perdere.»
«No», disse Pitt. «Mi riferisco all’aeroplano che è nella gola.»
In un primo momento Giordino pensò che l’amico fosse impazzito; ma poi si girò di nuovo sullo stomaco e guardò nella stessa direzione.
Nel deserto, ciò che è costruito dall’uomo non si disintegra e non imputridisce. Il peggio che può accadere è che il metallo venga smerigliato dalle tempeste di sabbia. E contro una banchina del corso d’acqua prosciugato, come un’aberrazione aliena, senza ombra di ruggine, quasi privo di erosione e di veli di polvere, c’era un aeroplano precipitato. Sembrava un vecchio monoplano ad ala alta, rimasto immobilizzato nella solitudine per diversi decenni.
«Lo vedi?» ripeté Pitt. «Oppure sono impazzito?»
«No, se non sono impazzito anch’io», disse Giordino, allibito. «Sembra proprio un aereo.»
«Allora deve essere vero.»
Pitt aiutò l’amico a rialzarsi. Avanzarono incespicando lungo il ciglio della gola fino a quando arrivarono direttamente sopra il relitto. La stoffa che rivestiva la fusoliera e le ali era intatta, i numeri d’identificazione erano leggibili. L’elica d’alluminio s’era spezzata nel contatto con il terreno e il motore radiale con i cilindri scoperti era rientrato parzialmente nell’abitacolo e s’era inclinato verso l’alto sui supporti spezzati. Ma a parte questo e il carrello schiantato, sembrava aver subito pochi danni. Erano ancora visibili i solchi scavati nel terreno quando l’aereo l’aveva toccato prima di precipitare oltre l’orlo e finire nel letto asciutto dell’antico fiumicello.
«Da quanto credi che sia qui?» gracchiò Giordino.
«Almeno cinquant’anni, forse sessanta», rispose Pitt.
«Il pilota deve essere sopravvissuto. Si sarà allontanato a piedi.»
«Non è sopravvissuto», disse Pitt. «Sotto l’ala di tribordo spuntano le gambe.»
Giordino girò lo sguardo. Dall’ombra dell’ala spuntavano uno stivale antiquato con i lacci e una parte di un pantalone color kaki. «Credi che gli dispiacerà se gli facciamo compagnia? Si è accaparrato l’unica ombra della zona.»
«Giusto.» Pitt scese, si lasciò scivolare sul dorso lungo il pendio ripido, e sollevò le ginocchia per usare i piedi come freni.
Giordino lo imitò. Piombarono nell’uadi sollevando zampilli di ghiaia e polvere. Come era avvenuto quando avevano scoperto la grotta con i dipinti rupestri, dimenticarono temporaneamente la sete quando si rialzarono e si avvicinarono al pilota morto da tanto tempo.
La sabbia aveva coperto la parte inferiore della figura che giaceva con la schiena appoggiata alla fusoliera. Una gruccia rudimentale ricavata da un supporto delle ali era a terra, accanto a un piede nudo. La bussola di bordo era semisepolta nella sabbia.
Il corpo del pilota era sorprendentemente ben conservato. Il caldo secco e il freddo intenso avevano cooperato per mummificarlo, e la pelle era scura e levigata come cuoio. C’era un’espressione di serenità e di soddisfazione sul viso; e le mani, irrigidite da più di sessant’anni d’immobilità, erano intrecciate sullo stomaco. Su una gamba era posato un vecchio casco da aviatore con gli occhialoni. I capelli neri, rinsecchiti e pieni di polvere, scendevano oltre le spalle.
«Mio Dio», mormorò sbalordito Giordino. «È una donna.»
«Doveva avere poco più di trent’anni», osservò Pitt. «Ed era molto carina.»
«Chissà chi era», ansimò Giordino, incuriosito.
Pitt girò intorno al corpo e slegò un pacchetto avvolto nella tela cerata e fissato alla maniglia dello sportello. L’aprì con cura e trovò un diario di bordo. Aprì la copertina e lesse la prima pagina.
«Kitty Mannock», disse.
«Chi?»
«Kitty Mannock, un’aviatrice famosa. Australiana, se non ricordo male. La sua scomparsa fu uno dei grandi misteri dell’aviazione, secondo solo al caso di Amelia Earhart.»
«E come mai è finita qui?» chiese Giordino che non riusciva a staccare lo sguardo dal corpo.
«Stava cercando di stabilire un primato con un volo da Londra a Città del Capo. Dopo la sua scomparsa, i militari francesi la cercarono sistematicamente ma non trovarono traccia di lei e dell’aereo.»
«Purtroppo era finita nell’unica gola che esiste in un raggio di cento chilometri. Sarebbe stata ben visibile dall’alto, se fosse atterrata sulla superficie del lago prosciugato.»
Pitt sfogliò le pagine del diario. «È precipitata il 10 ottobre 1931. L’ultima annotazione porta la data del 20 ottobre.»
«È sopravvissuta per dieci giorni», mormorò Giordino in tono ammirato. «Kitty Mannock doveva essere una donna forte e coraggiosa.» Si stese all’ombra dell’ala ed esalò un sospiro stanco fra le labbra gonfie e screpolate. «Dopo tanto tempo, avrà finalmente compagnia.»
Pitt non l’ascoltava. Aveva concentrato l’attenzione su un pensiero audace. Infilò il diario di bordo nella tasca e cominciò a esaminare ciò che restava dell’aereo. Non badò al motore: controllò invece il carrello. Anche se i supporti erano appiattiti dall’impatto, le gomme non erano rovinate, e anche quella piccola della coda era in buone condizioni.
Poi studiò le ali. Quella di tribordo aveva subito qualche danno, e sembrava che Kitty ne avesse ritagliato un grosso pezzo di stoffa; ma l’altra era pressoché intatta. La stoffa che copriva i supporti e le centine era indurita e piena di crepe, ma non s’era spaccata nonostante le condizioni estreme di caldo e di freddo. Assorto nei suoi pensieri, Pitt appoggiò la mano sul pannello metallico davanti all’abitacolo e la ritirò di colpo. Il metallo scottava come una padella sul fuoco. Nella fusoliera trovò una cassetta per gli attrezzi che includeva una piccola sega e il necessario per riparare le gomme, inclusa una pompa a mano.
Rimase assorto, ignaro del caldo feroce del sole. Aveva il viso scavato, era disidratato e denutrito. Avrebbe dovuto trovarsi in un letto d’ospedale dove avrebbero cercato di reidratarlo. Il vecchio con la falce stava per toccargli la spalla con la mano ossuta. Ma la mente di Pitt funzionava ancora alla perfezione e valutava i pro e i contro. E in quel momento decise che non sarebbe morto.