«È bello inseguire un sogno impossibile.»
«Funzionerà», affermò Pitt, deciso.
«Quanto credi che pesi?»
«Più o meno centosessanta chili.»
«Come lo chiameremo?» chiese Giordino.
«Cosa?»
«Deve avere un nome, no?»
Pitt indicò Kitty con un cenno. «Se ce la faremo a uscire da questa pentola a pressione, lo dovremo a lei. Ti piace Kitty Mannock?»
«Ottima scelta.»
Continuarono a scambiarsi qualche parola ogni tanto con voci che si perdevano nel grande vuoto dello spazio morto, fino a quando si assopirono.
Il sole bruciante sondava il fondo della gola quando, finalmente, si svegliarono. Alzarsi in piedi richiese un immane sforzo di volontà. Salutarono in silenzio Kitty e si avviarono barcollando verso il muso della loro unica, improvvisata speranza di sopravvivere. Pitt legò due pezzi di cavo alla parte anteriore del veicolo e ne porse uno a Giordino. «Te la senti?»
«Diavolo, no», sibilò Giordino, faticosamente.
Pitt sorrise, sebbene le labbra screpolate e sanguinanti dolessero. Guardò Giordino negli occhi, alla ricerca di quella luce che avrebbe garantito la salvezza. La luce c’era, ma fioca. «Facciamo a chi arriva primo in cima.»
Giordino barcollò come un ubriaco in una tempesta, ma strizzò l’occhio e disse in tono coraggioso: «Ti farò mangiare la polvere, fesso». Si issò il cavo sulla spalla, si inclinò in avanti e cadde subito bocconi.
L’imbarcazione a ruote rotolò come un carrello della spesa sul pavimento di un supermercato e per poco non lo travolse.
Giordino guardò Pitt con gli occhi arrossati e un’espressione di stupore sulla faccia bruciata dal sole. «Per Dio, è leggera come una piuma.»
«Naturale. L’hanno costruita due meccanici di prim’ordine.»
Senza parlare, trascinarono il veicolo al centro dell’uadi fino a quando raggiunsero un pendio di trenta gradi che arrivava alla superficie del lago prosciugato.
Era una salita di sette metri appena, ma per due uomini che appena diciotto ore prima s’erano creduti sull’orlo della tomba la sommità dell’erta sembrava la vetta dell’Everest. Non avevano immaginato di sopravvivere a un’altra notte; ma adesso erano di fronte a quello che immaginavano fosse l’ultimo ostacolo fra la salvezza e la morte.
Pitt fece il primo tentativo mentre Giordino riposava. Si fissò intorno alla vita uno dei due cavi da rimorchio e cominciò a inerpicarsi per il declivio come una formica ubriaca, pochi centimetri alla volta. Il suo corpo era una macchina esausta, al servizio d’una mente che solo a fatica riusciva ad aggrapparsi alla realtà. I muscoli doloranti protestavano, lanciando fitte atroci. Le braccia e le gambe cedettero ben presto, ma Pitt s’impose di continuare. Gli occhi iniettati di sangue erano semichiusi per la stanchezza, la faccia era scavata dalla sofferenza, i polmoni aspiravano l’aria in rantoli tormentati, il cuore batteva come un martello pneumatico sotto lo sforzo disumano.
Pitt non poteva fermarsi. Se lui e Giordino fossero morti, sarebbero morti anche gli infelici schiavi delle miniere di Tebezza, e il resto del mondo avrebbe ignorato il loro destino. Non poteva arrendersi, stramazzare e spirare… Non poteva farlo proprio ora che stava per sconfiggere il vecchio con la falce. Strinse i denti e riprese a salire.
Giordino tentò di gridargli qualche parola d’incoraggiamento, ma riuscì soltanto a emettere un bisbiglio gracchiante.
E finalmente le mani di Pitt superarono brancolando il ciglio del pendio. Chiamò a raccolta tutte le sue forze e tutta la sua volontà per trascinarsi sulla superficie del lago prosciugato. Rimase a terra, sull’orlo dell’incoscienza, consapevole soltanto del proprio respiro rantolante e dei battiti del cuore che minacciava di sfondare le costole.
Non seppe mai per quanto tempo rimase immobile sotto il sole: ma finalmente il respiro e il cuore rallentarono fino a una parvenza di regolarità. Si sollevò sulle mani e sulle ginocchia e guardò ai piedi del pendio. Giordino, seduto all’ombra della vela, agitò stancamente una mano.
«Sei pronto a salire?» chiese Pitt.
Giordino annuì fiaccamente, afferrò il cavo da rimorchio e incominciò a issarsi a poco a poco. Pitt si passò sulla spalla la sua estremità del cavo e fece leva con il suo peso inclinandosi in avanti, cercando di non sprecare energia. Quattro minuti più tardi, un po’ trascinandosi e un po’ lasciandosi trainare da Pitt, Giordino rotolò sul terreno piatto come un pesce tirato in secco dopo una lunga lotta contro l’amo e la lenza.
«Adesso viene il bello», mormorò Pitt.
«Non me la sento», ansimò Giordino.
Pitt lo guardò e vide che sembrava già morto. Aveva gli occhi chiusi, la faccia e la barba lunga erano coperte di polvere bianca. Se non fosse stato in grado di aiutarlo a rimorchiare il veicolo a vela fuori della gola, sarebbero morti entrambi prima di sera.
Pitt s’inginocchiò e lo schiaffeggiò bruscamente. «Non puoi abbandonarmi», sibilò. «Come puoi sperare di conquistare la bella pianista di Massarde se non ti decidi a muoverti?»
Giordino aprì gli occhi e si passò una mano sulla guancia impolverata. Con un supremo sforzo di volontà si alzò e barcollò come un ubriaco. Fissò Pitt senza rancore e, nonostante la sofferenza, riuscì a sorridere. «Mi vergogno d’essere tanto prevedibile.»
«Eppure è meglio così.»
Come due muli emaciati, afferrarono i cavi da rimorchio e si mossero. Erano troppo deboli per fare più di qualche passo mentre il loro peso trascinava lentamente il veicolo su per il declivio. Tenevano la testa china, la schiena curva, e le loro menti erano smarrite nel delirio della sete. L’avanzata era di una lentezza straziante.
Quasi subito caddero in ginocchio e avanzarono carponi. Giordino vide il sangue che colava dalle mani di Pitt, dove il cavo aveva spellato le palme: ma sembrava che neppure se ne accorgesse. Poi i cavi si allentarono e il veicolo a vela superò il ciglio della gola e li urtò. Per fortuna, Pitt aveva preso la precauzione di legare i cavi della vela, in modo che questa adesso puntava controvento e non generava la minima forza motrice.
Pitt sganciò i cavi da rimorchio, aiutò Giordino a salire a bordo e lo vide crollare come un sacco di patate su uno dei sedili. Poi alzò gli occhi verso la striscia di stoffa che aveva legato al sartiame perché servisse come anemometro e gettò in aria una manciata di sabbia per accertare la direzione del vento: soffiava da nord-ovest.
Era giunto il momento della verità. Guardò Giordino che fece un gesto apatico con la mano e bisbigliò: «Puoi partire».
Pitt si appoggiò alla parte posteriore della fusoliera e spinse il veicolo fino a quando incominciò a muoversi lentamente sulla sabbia. Dopo qualche passo malfermo si lasciò cadere sul sedile posteriore. Il vento soffiava dietro la sua spalla sinistra. Allentò la scotta e regolò il timone per iniziare a bordeggiare sottovento. Poi tirò leggermente la scotta quando il vento investì la vela e la Kitty Mannock incominciò a muoversi da sola, e aumentò rapidamente la velocità quando Pitt tirò un po’ più la scotta.
Guardò la bussola dell’aereo e regolò la rotta mentre lo sfinimento e l’euforia si mescolavano nel battito del suo cuore. Regolò la vela quando si fletté nel vento; e ben presto il veicolo sfrecciò sul lago prosciugato sollevando con le ruote scie di polvere in uno splendido silenzio, a poco meno di sessanta chilometri orari.
L’euforia cedette il posto a qualcosa di molto simile al panico quando Pitt eccedette nel correggere la rotta e all’improvviso notò che la luce del giorno spuntava sotto la ruota nella direzione del vento, e questa si era sollevata nella condizione che gli specialisti chiamano hiking. Aveva spostato troppo la vela e aumentato la potenza. Ora doveva compiere una manovra correttiva per evitare che l’imbarcazione si capovolgesse… e sarebbe stato il disastro perché lui e Giordino non avrebbero mai avuto la forza di raddrizzarla.