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Era quasi al punto di non ritorno quando allentò le scotte e girò dolcemente il timone per mandare il veicolo incontro al vento. Rimase in rotta, e lo sbilanciamento si ridusse fino a quando la ruota toccò di nuovo il suolo.

Pitt aveva navigato con piccole barche a vela quand’era ragazzo, a Newport Beach, in California: mai, però, a simili velocità. Quando puntò a un angolo di 45 gradi rispetto al vento, incominciò a regolare l’enorme ala con le scotte e con piccole, continue correzioni. Un’occhiata alla bussola gli disse che era venuto il momento di deviare per procedere su una nuova rotta a zigzag verso est.

Ora che incominciava a sentirsi più sicuro, doveva trattenersi dallo sfruttare al massimo la velocità, fino alla linea sottile che divide il pieno controllo di un mezzo dal rischio di un incidente. Non intendeva tirarsi indietro proprio ora, ma il buon senso gli rammentava che la Kitty Mannock non era il più stabile dei veicoli del suo genere, ed era tenuto insieme da cavi metallici e cime ultrasessantenni.

Continuò a tener d’occhio i mulinelli di polvere che sfrecciavano sul lago desolato. Sarebbe bastato un improvviso colpo di vento perché si rovesciassero e non potessero proseguire. Pitt sapeva che dovevano affidarsi alla fortuna. Un altro burrone, invisibile fino a quando fosse stato troppo tardi, un macigno che poteva spezzare un sostegno, o un’altra catastrofe ancora potevano assalirli da un momento all’altro.

La Kitty Mannock slittava e sbandava ma continuava a correre sul lago prosciugato a velocità che Pitt non avrebbe creduto possibili. Lo spostamento d’aria causato dal movimento incominciò a buttargli la sabbia in faccia. Il vento soffiava sempre più forte alle loro spalle, e ormai dovevano raggiungere gli ottantacinque chilometri orari. Dopo aver camminato faticosamente per giorni nel deserto, aveva la sensazione di sorvolare il terreno a bordo di un jet. E contro ogni speranza, continuava a sperare che la Kitty Mannock non si sfasciasse.

Dopo mezz’ora, scrutò con gli occhi doloranti il paesaggio invariato in cerca di un segno rivelatore. Aveva una preoccupazione nuova: temeva di attraversare la pista Transahariana senza riconoscerla. Sarebbe stato facile, dato che era soltanto una vaga traccia nella sabbia, in direzione nord-sud. Se l’avessero mancata, sarebbero penetrati nell’immensità del deserto popolato soltanto da miraggi e non avrebbero potuto tornare indietro.

Non si vedevano tracce di veicoli, e il terreno era di nuovo corrugato dalle dune. Pitt si chiese se avevano varcato il confine ed erano entrati in Algeria. Era impossibile capirlo. Le grandi carovane che un tempo avevano fatto la spola fra la valle del Niger e il Mediterraneo con i carichi d’oro, avorio e schiavi erano svanite senza lasciare tracce del loro passaggio. Al loro posto c’erano poche macchine di turisti, camion che trasportavano provviste e pezzi di ricambio e qualche veicolo militare in servizio di pattuglia: niente altro si muoveva nel deserto ignorato da Dio.

Se Pitt avesse saputo che in realtà la netta linea rossa che indicava la pista sulle mappe non esisteva ed era il frutto dell’immaginazione dei cartografi, sarebbe stato sopraffatto dalla disperazione. Le uniche vere indicazioni, se avesse avuto la fortuna di avvistarle, erano ossa di animali, qualche veicolo abbandonato e spogliato, tracce di pneumatici non ancora coperte dalla sabbia portata dal vento e una fila di vecchi bidoni di petrolio a intervalli di quattro chilometri… purché non li avessero portati via i nomadi di passaggio per usarli o per rivenderli a Gao.

Poi, sulla destra e vicino all’orizzonte, vide un oggetto artificiale, un punto scuro nel tremolio delle onde di calore. Anche Giordino lo vide e lo indicò: era la prima volta che dava segno di vita dopo la partenza. L’aria era limpida e trasparente come vetro. Erano usciti dal lago prosciugato e dal suolo non si alzava più polvere. Adesso potevano distinguere l’oggetto: era la carcassa di un autobus Volkswagen, spogliato di tutto ciò che era stato possibile asportare. Restava soltanto l’involucro, e c’era uno slogan sarcastico tracciato sulla fiancata con lo spray: «Dov’è Lawrence d’Arabia quando c’è bisogno di lui?»

Convinto di aver raggiunto la pista, Pitt iniziò una nuova rotta e puntò verso nord. Il terreno era diventato sabbioso, con ampie distese di ghiaia. Ogni tanto incappavano in un tratto più soffice, ma il veicolo a vela era troppo leggero per sprofondare e continuava la corsa rallentando appena.

Dopo una decina di minuti, Pitt vide un bidone che spiccava all’orizzonte. Ormai era sicuro di viaggiare sulla pista, e incominciò una serie di puntate di due chilometri verso nord, in territorio algerino.

Giordino non si muoveva più. Pitt lo scrollò per la spalla, ma vide che la testa si inclinava lentamente da un lato prima di ricadere in avanti con il mento sul petto. Aveva perduto i sensi e stava per spegnersi. Pitt tentò di gridare, di scuoterlo bruscamente… ma non ne trovò la forza. Vedeva la tenebra che si addensava al limite della visuale e sapeva che sarebbe svenuto entro pochi minuti.

Sentì qualcosa che gli sembrava il rombo di un motore lontano. Ma non vide nulla davanti a sé, e pensò che fosse uno scherzo del delirio. Il suono divenne più forte. Lo riconobbe: era un motore diesel, accompagnato dal borbottio dello scappamento. Ma non si vedeva ancora ciò che lo produceva. Ormai era certo che l’oblio stava per travolgerlo.

Poi sentì lo strombettare di un clacson, e allora girò stancamente la testa in quella direzione. Un grosso Bedford di fabbricazione britannica s’era affiancato a loro e il camionista arabo guardava i due a bordo del veicolo a vela con un’espressione curiosa e un gran sorriso. All’insaputa di Pitt, il camion li aveva raggiunti da dietro.

Il camionista si sporse dal finestrino, si portò una mano alla bocca e gridò: «Serve aiuto?»

Pitt trovò a stento la forza di annuire.

Non aveva pensato a un sistema per fermare il suo veicolo a vela. Tentò stancamente di tirare la scotta e di girare la vela controvento, ma riuscì soltanto a far descrivere un semicerchio all’imbarcazione. I suoi sensi non funzionavano nel modo dovuto e sbagliò nel valutare una raffica improvvisa di vento. Lasciò la scotta ma era troppo tardi. Il vento e la forza di gravità gli strapparono il controllo del veicolo che si rovesciò; i supporti delle ruote e la vela si spezzarono, e Pitt e Giordino furono sbalzati sulla sabbia come pupazzi in una nuvola di polvere e di rottami.

L’arabo si accostò e fermò il camion. Balzò dalla cabina e corse a chinarsi sui due privi di sensi. Riconobbe subito i segni della disidratazione, tornò al camion e prese quattro bottiglie di plastica piene d’acqua.

Pitt riemerse dall’abisso di tenebra non appena sentì il liquido che gli scorreva sulla faccia e nella bocca semiaperta. La trasformazione fu miracolosa. Un attimo prima stava per morire: ma dopo aver ingurgitato quasi nove litri d’acqua ridiventò un essere umano quasi efficiente.

Anche Giordino era tornato alla vita. Sembrava incredibile che fossero riusciti a riprendersi tanto in fretta solo grazie a una robusta dose di liquidi.

Il camionista offrì loro qualche tavoletta di sale e un po’ di datteri secchi. Aveva una faccia scura e intelligente, e portava un berretto da baseball senza contrassegni. Rimase accosciato ad assistere incuriosito al miracolo.

«Siete venuti da Gao con la macchina a vela?» chiese.

Pitt scosse la testa. «Fort Foureau», mentì. Non era ancora certo di trovarsi in Algeria, e temeva che il camionista li consegnasse alla polizia se avesse saputo che erano evasi da Tebezza. «Dove siamo, esattamente?»

«In mezzo al deserto di Tanezrouft.»

«In quale nazione?»