Carr scoppiò a ridere. — La Fontana dei Grandi Laghi di Taft è una mia ossessione. Cerco sempre di capire, dal modo in cui le vasche sorrette dalle cinque sorelle si riversano le une sulle altre, quale lago corrisponda a ogni singola sorella. E naturalmente la fontana è più vicina al leone meridionale.
— Siete venuto fin qui a piedi? — chiese la ragazza.
— Sì. E adesso ho una domanda da farvi. Chi sono quelle persone dalle quali mi avete detto di stare in guardia? Quella bionda prosperosa, ad esempio. Perché avete permesso che vi schiaffeggiasse senza reagire? Che razza di ascendente ha su di voi?
— Non voglio parlare di loro. — La sua voce suonò priva d’emozioni, piatta. — È qualcosa di orribilmente osceno e non voglio pensarci.
— Stanno dando la caccia anche all’ometto scuro con gli occhiali?
— Ho detto che non voglio parlarne. È qualcosa per cui voi non potete far niente. Se insisterete a parlarne, allora non voglio più restare con voi.
Carr aspettò, in silenzio. Una raffica più gelida delle altre investì i gradini e la ragazza si strinse ancor più le braccia intorno al corpo.
— D’accordo — acconsentì Carr. — Che ne direste se andassimo a bere un bicchierino da qualche parte?
— Se mi lascerete scegliere il posto.
Queste ultime parole gli fecero pensare a Marcia. Si affrettò a prendere a braccetto la ragazza e le disse: — Guidatemi voi.
Mentre scendevano i gradini lui le chiese: — Come vi chiamate?
— Jane.
— Jane che cosa?
La ragazza scosse la testa.
— Il mio nome è Carry con due erre.
Erano a un mezzo isolato dall’Istituto d’Arte quando Carr le chiese: — E il vostro amico?
— Non credo che ci siano molte possibilità che arrivi, ormai.
Proseguirono verso nord. Il vento, il buio e l’ampio marciapiede vuoto parevano strani e desolati, così vicini al boulevard con le sue automobili rombanti e la sua frangia di gente e luci sull’altro lato.
Il braccio di Jane accentuò un poco la sua stretta su quello di Carr. — Questo sì che è divertente — disse. — Voglio dire… avere un appuntamento.
— Non pensavo che avreste avuto dei problemi — lui replicò.
Erano sul lato opposto rispetto alla Biblioteca Pubblica. Jane gli fece attraversare il boulevard. Parve a Carr che quel senso di desolazione li avesse seguiti perché mentre passavano davanti alla massiccia facciata scura della biblioteca incontrarono soltanto due persone: un ragazzo che veniva avanti di corsa, cupo in volto, e un vecchio dal berretto a scacchi e un logoro soprabito che strascicava i piedi.
Socchiusero le palpebre per proteggersi dal pulviscolo soffiato dal vento. Un foglio di giornale sbatté sui loro volti. Carr lo strappò via e il foglio venne risucchiato in alto dal vento. Si guardarono e scoppiarono a ridere. Carr le afferrò una mano e fece per attraversare la trasversale successiva che passava sotto la sopraelevata.
Sentì un violento strattone e Jane che gridava: — Attento!
Carr balzò fuori dalla traiettoria di un’automobile scura che si stava precipitando veloce verso di lui a fari spenti.
— Dovreste stare più attento — commentò la ragazza. — Non possono vederci, sapete.
— È vero — disse Carr. — Qui la strada è terribilmente buia.
Camminarono per un breve tratto. All’improvviso Jane svoltò in un vicolo acciottolato sul quale si aprivano numerose uscite antincendio. Qualche passo ancora, e Carr fu sorpreso di vedere l’ingresso di una piccola taverna. Una breve gradinata conduceva a una porta sprofondata nel sottosuolo.
Il posto era fiocamente illuminato e quasi vuoto. Nessuno degli scomparti era occupato. Al banco c’erano due uomini che stavano contemplando due boccali mezzo vuoti. Fra le ombre s’intravedevano alcuni vecchi manifesti pubblicitari affumicati e alcune oleografie, tra cui una grande riproduzione dell’Ultima resistenza di Custer.
— Cosa prendete? — le chiese Carr dirigendosi al banco.
— Aspettate un minuto — replicò la ragazza guidandolo invece verso l’ultimo séparé, schiacciato a ridosso della porta a ventola della cucina la quale, a quanto pareva, era chiusa, poiché la finestrella rotonda sull’anta era buia. Né i due avventori né il barista alzarono gli occhi quando passarono. Il barista era un uomo grasso e solenne, intento a schiumare pensosamente un boccale di birra.
Jane fissò Carr attraverso il tavolino tutto macchiato. Il colore le era riaffluito sulle guance e lei stava sorridendo, come se ciò che stavano facendo fosse meraviglioso. Carr si scoprì a pensare ai suoi giorni all’università, quando c’erano le fiaschette tascabili e le spider, gli assegni che arrivavano da casa, le lezioni da marinare.
— È strano — disse Carr. — Sono passato per questo vicolo cento volte e non mi sono mai accorto di questo posto.
— Le città sono fatte così — rispose la ragazza. — Si pensa di conoscerle, quando tutto quello che si conosce sono soltanto le strade che l’attraversano. Si pensa che le rosticcerie e le tavole calde, le lavanderie Pulisci e Smacchia, le Pompe Funebri Reagan e la donna che se ne sta sempre a spolverare al primo piano siano tutto lo spettacolo. Un giorno si gira un angolo dalla parte sbagliata, e dopo una dozzina di passi si scopre qualcosa che non si è mai visto prima.
Cominciamo perfino a parlare della vita, pensò Carr.
Uno dei due bevitori di birra infilò un paio di nichelini nella fessura del juke-box. Ne sgorgò un preludio di note basse che turbinarono nell’aria. Carr guardò in direzione del banco. — Mi chiedo se c’è un cameriere — disse. — Forse in questo momento non servono ai tavoli.
— Che importa? — disse lei. — Balliamo.
— Non credo che sia permesso — obiettò Carr. — Dovrebbero avere un’altra licenza.
— Su venite — lo sollecitò lei. Carr scrollò le spalle e la seguì.
Non c’era molto spazio ma bastava. Con quella che a Carr parve una squisita cortesia, i due bevitori di birra non prestarono loro la minima attenzione, anche se uno dei due si mise a battere il tempo col bicchiere contro il palmo della mano.
Jane ballava male, ma dopo un po’ migliorò. Con una certa solennità si mossero descrivendo un breve cerchio. Lei era sottile: Carr poteva sentire le costole attraverso il giubbetto. Lei non disse niente fin quasi alla conclusione del brano musicale.
Poi, con voce soffocata: — È passato così tanto tempo da quando ho ballato con qualcuno.
— Non con il vostro uomo con gli occhiali, vero? — le chiese lui in fretta.
Jane scosse la testa. — È troppo nervoso, sempre così serio. Non riesce a distendere i nervi. Neppure finge di farlo.
Iniziò il secondo disco. Dopo un po’ l’espressione della ragazza si schiarì. Appoggiò la guancia contro la sua spalla. — Ho una teoria sulla vita — disse con voce sognante.
Sì, pensò Carr, è proprio come ai vecchi tempi. Scacciò dalla mente un fugace sospetto che lei si stesse burlando di lui… molto teneramente, ma sempre burlandosi di lui. Come una bambina solenne, dagli occhi spalancati, che racconta una storia a un adulto.
— Penso che la vita abbia un ritmo — cominciò, soffermandosi di tanto in tanto a tempo con la musica, con le frasi che andavano e venivano come sospinte dalla marea. — Continua a cambiare a seconda dell’ora del giorno e dell’anno ma in realtà è sempre lo stesso. La gente lo sente senza riconoscerlo: governa le loro vite.