Un’altra coppia entrò nel locale e andò a occupare uno dei séparé sul davanti. Il barista si asciugò le mani sul grembiule, spinse il portello del bancone e si avvicinò a loro.
— Mi piace la vostra teoria Jane — dichiarò Carr. — Mi piace andare alla deriva a prendere le cose così come vengono. C’è qualcuno che non vuole che io lo faccia, che vorrebbe vedermi lottare contro la corrente, costruire una barca, magari un incrociatore pesante che richieda pesanti responsabilità. Io preferisco seguire il ritmo.
— Oh, ma voi non seguite il ritmo — esclamò Jane. — Noi ce ne siamo staccati.
— Davvero?
— Oh, sì.
— Era questo che intendevate questo pomeriggio quando vi siete chiesta se mi ero “destato”?
— Forse.
La musica cessò. Carr affondò la mano in tasca alla ricerca di altri nichelini da infilare nel juke-box, ma la ragazza scosse la testa. Tornarono a scivolare nel loro séparé.
Squillò un telefono. Il grasso barista mise giù con at tenzione il vassoio con i drink che aveva preparato per l’altra coppia e andò nella parte anteriore del locale per rispondere.
— Siete sicura di non voler ballare ancora un po’? — chiese Carr.
— No. Lasciamo che le cose ci accadano così come vengono.
— Una buona idea — ammise Carr — sempre che non la si spinga troppo in là. Per esempio, eravamo venuti qui per bere qualcosa.
— Sì, è vero — annuì Jane. Un’espressione piuttosto birichina le affiorò nello sguardo. Lanciò un’occhiata verso i due drink appoggiati sul banco del bar. — Quelli sembrano buoni — commentò.
Carr annuì a sua volta. — Mi chiedo cosa si debba fare per averli — osservò, irritato.
— Avvicinarsi e prenderli. Lui la fissò. — Seriamente?
— Perché no? Siamo arrivati qui per primi. Così impareranno. — I suoi occhi erano ancora vivaci.
Carr la guardò sogghignando. — D’accordo — disse alzandosi d’un tratto. — Lo farò.
Con sua viva sorpresa, lei non lo fermò. Ancora di più, non ci furono proteste quando ghermì, con mossa ardita, i due bicchieri e li portò da Jane.
Lei applaudì in silenzio.
Carr s’inchinò e depositò i drink sul tavolino con un ampio gesto. Si misero a sorseggiarli.
La ragazza sorrise. — È un’altra delle mie teorie sulla vita. Puoi cavartela con qualunque cosa se vuoi davvero farlo. A causa del ritmo gli altri non possono fermarci. Non importa cosa succede, devono continuare a ballare. Sono incastrati. Possono interferire con noi soltanto se capita che l’interferenza rientri nel ritmo. Altrimenti siamo al sicuro.
Ed è piuttosto vero, rifletté Carr. La maggior parte della gente, lui compreso, percorrevano il cammino dell’esistenza in preda alla paura e ad un tremore più o meno controllato, convinti che, se avessero fatto la minima mossa per imporre se stessi, qualcuno gli sarebbe saltato addosso. Immaginavano che chiunque altro li stesse osservando, aspettando il primo errore da essi commesso. Ma in effetti gli altri erano spaventati quanto voi o anche di più. E preferivano che foste voi a compiere errori e passi falsi, poiché ciò sarebbe servito ad allentare le preoccupazioni che li assillavano. Sì, decisamente c’era un ritmo nella vita, o quanto meno un contrappunto di timidezze opposte. A esempio, quel barista che era di nuovo indaffarato con i bicchieri e le bottiglie. Non aveva neppure guardato nella loro direzione. — Probabilmente provava imbarazzo per aver trascurato di servirli, ed era più sollevato che infastidito dal gesto di Carr.
— Non mi credete neppure adesso? — insisté la ragazza. — È possibile farla franca. Ve lo dimostrerò di nuovo.
Quando aveva incontrato Jane per la prima volta, Carr aveva nutrito il vago sospetto che fosse una specie di taccheggiatrice o una delinquente di piccola stazza; adesso, il sospetto tornò a balenargli nella mente ma soltanto per spegnersi un istante dopo.
— Siete una ragazza parecchio singolare — le disse. — Che cosa vi ha fatto diventare così? Chi… — S’interruppe quando la vide accigliarsi. — Be’, c’è però una domanda che posso farvi — proseguì. — Cos’è che vi ha fatto trasalire in quel modo quando vi siete seduta alla mia scrivania questo pomeriggio? È parso che aveste sentito qualcosa in me che vi ha terrorizzato. Cos’era?
La ragazza scrollò le spalle. — Non lo so. — Ma ancora una volta i suoi occhi erano diventati quelli d’una sfinge. — Forse — disse — era soltanto il fatto che mi ero resa conto che eravate vivo.
— È strano — dichiarò lui con voce grave — perché, sapete, per due volte, oggi, ho provato l’illusione di…
— Non ditelo — lo interruppe lei toccandogli la mano. La ragazza guardò il suo bicchiere per un attimo, sfregò le goccioline di umidità sulla sua superficie, e piegò le mani a coppa intorno a esso con aria stupita. — È bello essere vivi — disse con voce vibrante. — Bello. Naturalmente ancora più meraviglioso sarebbe tornare al vecchio e sicuro schema ed essere ancora vivi. Ma è impossibile.
— E il vecchio e sicuro schema sarebbe… — Carr la sollecitò.
Lei scosse la testa e guardò altrove. Carr lasciò cadere la domanda.
Cominciò ad arrivare altra gente. Carr e Jane terminarono i loro drink discorrendo dei vecchi manifesti pubblicitari e delle oleografie, trovandosi d’accordo sul fatto che comunicavano un’intensa sensazione di nostalgia poiché, a differenza delle genuine creazioni artistiche, morivano dopo pochi anni, diventando corone funebri disseccate, lettere d’amore sbiadite. Nuovi avventori entrarono. Ben presto tutti gli altri séparé furono pieni, e non c’erano molti posti vuoti al banco del bar. Jane cominciò a mostrarsi inquieta. D’un tratto si alzò in piedi e disse: — Andiamo da qualche altra parte.
Carr fece per dire qualcosa ma lei era già sgusciata intorno a una coppia che si stava avvicinando al loro séparé, e si stava avviando a lunghi passi verso la porta d’ingresso. Carr fu colto dalla paura che se ne andasse, proprio come aveva già fatto quel pomeriggio senza che lui la potesse rivedere mai più. Sfilò di scatto dal portafoglio un biglietto da un dollaro e lo lasciò cadere sul tavolo. Con irritante scortesia, i nuovi venuti gli passarono davanti e si sedettero. Ma non c’era tempo per delle battute sarcastiche, Jane stava già salendo i gradini. Carr si voltò e le corse dietro.
Lo stava aspettando fuori. Le afferrò il braccio.
— La gente vi dà sui nervi? — le chiese.
Lei non rispose. Faceva troppo buio per vedere il suo viso. Il marciapiede sotto i loro piedi era irregolare e scivoloso. Le passò un braccio intorno alla vita.
Il vicolo terminò. Emersero in una strada dove l’aria aveva quel bagliore intossicante che il centro delle grandi città sfoggia durante la notte. Come se i lampioni soffiassero fuori nubi di polveri luminose che salivano di tre o quattro piani. Più sopra, muraglie scure che si estendevano verso poche stelle smorte.
Passarono davanti a un negozio di musica. Il passo di Jane rallentò fino a diventare indeciso. Attraverso la porta aperta Carr intravide una distesa di mogano attraversata da strette corsie d’avorio ed ebano. C’erano pianoforti verticali e a coda, spinette. Jane entrò. Il rumore dei suoi passi si spense mentre camminava sul folto tappeto.
Chiunque altro si trovasse nel negozio era lontano dalla loro vista, in fondo al locale, dove una luce diffusa dava fascino agli scaffali colmi d’album di dischi e a una fila di cubicoli. Jane si sedette a un pianoforte: le sue dita sottili si mossero per un po’ sopra i tasti, esplorandoli nervosamente. I tendini tesi, che ricordavano gli artigli, sottolineavano l’espressione del suo viso. Poi la sua schiena s’irrigidì, la sua testa si sollevò, e giunsero gli arpeggi iniziali, freneticamente increspati, del terzo movimento della sonata Chiaro di luna di Beethoven.