Uno dei romanzi più belli e commoventi che abbia mai letto è All Men Are Enemies di Richard Aldington, ma sfogliate le poche scene erotiche (soprattutto quella in cui gli amanti fanno il bagno) e vedrete come si trasforma il linguaggio… L’unico modo in cui possa descriverlo è “curioso, molto curioso”. (Un sistema per evitare tutto questo consiste nel manipolare le parole in modo da trasformarle in una burla nei confronti del censore, come faceva James Branch Cabell, ma la cosa ha degli svantaggi sotto altri punti di vista).
A volte la questione si trasforma in una battaglia all’ultima parola. Quando apparve la prima edizione dell’Uomo ombra di Dashiell Hammett, ricordo che la gente mormorava perché la parola “erezione” vi era usata nel suo significato sessuale. È molto strano, ma nelle edizioni più recenti (almeno in quelle tascabili) il termine in questione è scomparso. Forse a qualcuno sarà sembrato troppo letterale, addirittura clinico.
Nel contratto che io avevo firmato per The Sinful Ones, d’altra parte, non c’era una clausola che prevedesse l’approvazione dell’autore per eventuali cambiamenti e così non potei farci niente.
Cambiamo scena: passano quindici anni e un editore di tascabili, la Ace, decide di ristampare la versione breve You’re All Alone, rimpolpandola con due miei racconti (“Quattro spettri nell’Amieto” e “La creatura dagli abissi di Cleveland”) per arrivare al numero di pagine desiderato. In un eccesso di zelo pensai che dovessimo ottenere comunque il benestare della Universal Publishers, e quei signori trascinarono la cosa per anni (benché non avessero la minima intenzione di ristampare lo sciagurato Sangue, tori e passione). Per sbloccare la situazione dovetti ricomprare i diritti del mio romanzo pagandoli cinquecento dollari, cioè la stessa somma che mi avevano versato all’epoca dell’originaria pubblicazione.
E vi meravigliate se definisco “disastrato” il mio terzo romanzo, questa specie di mostro a due teste? È un aggettivo persino troppo elevato, troppo poetico rispetto alla sorte cui è andato incontro!
Oggi The Sinful Ones (in italiano Scacco al tempo) appare ancora una volta, e da solo. L’ho riesaminato con maggior attenzione; una volta possedevo una copia carbone del manoscritto originale, ma è andata persa circa sette anni fa e ho dovuto lavorare sul testo pubblicato. Non possedevo copie delle scene d’amore come le avevo scritte in origine e non le ricordavo più a memoria.
Ho deciso, d’accordo col mio editore, che il titolo del libro e quelli dei capitoli dovessero rimanere come nell’edizione Universaclass="underline" dopotutto, erano stati così per ventisette anni e avrebbero potuto aiutare qualcuno a identificare il romanzo, ammesso che l’avesse visto nella sua prima incarnazione.
Nell’apportare le necessarie correzioni al testo, mi sono limitato a eliminare errori o confusioni introdotte dalla Universal all’epoca della redazione originaria e del suo “accoppiamento”. Alcuni, lo ammetto, possono essere errori o discrepanze che esistevano già nel mio manoscritto.
Tuttavia, non ho potuto lasciare inalterate le scene erotiche: erano troppo sciocche e datate, troppo soft porn stile 1953. Quindi le ho riscritte come farei oggi, lavorando senza l’ombra della censura ma cercando di non tradire lo spirito dei miei personaggi come li avevo inizialmente concepiti.
Fritz Leiber (1980)
1
Capitò a Carr Mackay, in un momento di noia profonda, di vedere per la prima volta la ragazza spaventata. Gli uffici dell’Agenzia Generale di Collocamento sembravano una prigione, il tempo una parete invalicabile, la vita una camicia di forza, l’aria stessa un cemento invisibile a lenta presa. Perfino il pensiero di Marcia non riusciva a infondere un po’ di colore al suo umore grigio.
Aveva appena concluso il colloquio con un candidato. Il cestino vuoto di fil di ferro che aveva sulla scrivania significava che per un po’ non avrebbe avuto niente da fare.
Gli altri intervistatori erano ancora indaffarati, ognuno con la propria fetta di disoccupati in cerca di lavoro che, come un lento fiume, s’insinuavano nel raccordo anulare di Chicago, convergendo sull’Agenzia Generale di Collocamento, per poi andarsene di nuovo per la propria strada, senza una mèta, come tante formiche che stessero affluendo dentro e fuori da un buco, altrettanto indifesi come se cercassero di sfuggire alla rotazione d’un tacco gigantesco.
A Carr pareva che qualunque altra cosa fosse più interessante della gente. Ma un’occhiata al grande orologio gli disse che erano soltanto le quindici e trenta, e la prospettiva di un’ora e mezzo vuota gli pareva ancora peggiore di una piena di gente, non importava quanto stupida e priva di vita fosse.
E fu proprio allora che la ragazza spaventata entrò nella sala d’attesa. Si sedette, senza guardarsi intorno, su una delle panche — di legno e con lo schienale alto — più simili ai banchi d’una chiesa.
Carr l’osservò attraverso il massiccio pannello di vetro che rendeva ogni cosa, lì nella sala d’attesa, silenziosa e lievemente irreale. Era soltanto una ragazza con un giubbetto di lana. Il tipo universitario, un po’ ricercato, i capelli scuri che le ricadevano disordinatamente sulle spalle. E nervosa, anzi, spaventata. Una ragazza comune, a ogni modo. Non aveva niente di molto interessante, o di grazioso.
Eppure… era come se Carr fosse rimasto seduto per ore davanti a un sipario con la certezza che, ormai, non si sarebbe mai più sollevato, quando d’un tratto qualcosa (chissà cosa… un trepestio di piedi nel pozzo dell’orchestra, un lieve smorzarsi della luce, la sensazione che un attore stesse sbirciando attraverso uno dei fori appositamente ricavati nel pesante tessuto) gli dette l’impressione che, forse, non sarebbe stato tanto doloroso aspettare ancora un po’.
— Ahi, i miei piedi!
Carr si guardò intorno. I lineamenti della signorina Zabel erano distorti nella simulazione d’un intenso dolore mentre raccoglieva le schede registrate dalla sua scrivania.
— Vi fanno male i piedi? — le chiese, solidarizzando.
La donna annuì. Il suo ruvido e ingovernabile ciuffo di capelli si agitò deciso. — Siete fortunato voi — dichiarò. — Potete starvene seduto a una scrivania.
— Può essere altrettanto penoso.
Lei lo fissò scettica e si allontanò ancheggiando.
Lo sguardo di Carr tornò con un guizzo alla ragazza spaventata. C’era stato un cambiamento. Qualunque cosa avesse fatto prima, ora non lo faceva più. Non si mordeva più le labbra, non si torceva le dita. Sedeva del tutto immobile, guardando diritto davanti a sé, le braccia aderenti ai fianchi.
Un’altra donna era entrata nella sala d’attesa. Una bionda piuttosto in carne, bella alla maniera delle bionde raffigurate sui manifesti, con un’acconciatura tanto perfetta da sbalordire. Eppure, il vestito confezionato su misura la faceva sembrare mascolina. Aveva una bocca crudele e c’era qualcosa di strano nei suoi occhi. Parecchie categorie lavorative balzarono alla mente di Carr: impiegata alla ricezione, modella (forse un po’ troppo massiccia però), addetta agli acquisti, investigatrice privata. Si era fermata subito all’interno della porta d’ingresso, guardandosi intorno. Vide la ragazza spaventata. Si diresse subito verso di lei.
Il telefono sulla scrivania di Carr si mise a ronzare.
Mentre prendeva il ricevitore, Carr notò che la bionda esuberante si era fermata davanti alla ragazza spaventata e aveva abbassato lo sguardo su di lei. Gli sembrò che la ragazza spaventata fingesse in modo piuttosto patetico d’ignorarla.
— Sei tu Carr — disse la voce all’apparecchio.