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Si fermò di botto. Fissò la scena, fece un passo indietro.

Non poteva essere. Doveva essersi sbagliato.

Ma le schegge di vetro del lampione rotto non potevano essere state imitate, no di certo, e neppure quel cancello di ferro battuto. Il sole era già sceso sotto l’orizzonte, ma i suoi raggi venivano riflessi dalla superficie inferiore d’un banco di nubi. A quel bagliore spettrale, tutto spiccava con molta chiarezza.

Un viale coperto di ghiaia conduceva proprio alla grande dimora di pietra che aveva immaginato: torrette, il tetto spiovente, i massicci cornicioni, tutto nello stile degli anni intorno al 1890.

Ma il cancello e la recinzione erano arrugginiti, alte erbacce avevano invaso il viale, il prato e le aiuole erano inselvatichiti, le finestre al piano superiore erano vuote e senza tende e per la maggior parte rotte; quelle del pianterreno erano sbarrate con assi, e così pure la porta d’ingresso. Il guano dei piccioni imbiancava la cupa pietra bruna e, al centro del prato, seminascosto dalle erbacce, si ergeva un cartello sbiadito dalle intemperie:

IN VENDITA

6

Esitante Carr spinse il cancello di ferro. Si aprì d’una sessantina di centimetri, poi stridette contro la ghiaia, un po’ umida per la pioggia del giorno prima, e si bloccò del tutto. Carr scivolò dentro.

La casa appariva deserta. Comunque era risaputo che c’era gente che faceva una vita da recluso nei luoghi più impensabili.

Oppure, un posto come quello poteva essere segretamente usato da intrusi. Perfino in quel momento occhi estranei potevano sbirciarlo attraverso le fessure tra le assi che bloccavano le finestre del pianterreno.

I suoi piedi lo stavano conducendo lungo il viale che portava dietro la casa passando davanti al sottoportico. Aveva quasi raggiunto l’edificio quando notò le impronte.

Erano di una donna, molto fresche, eppure affondavano più in profondità delle sue. Dovevano essere state lasciate dopo la pioggia. Ce n’erano due serie: una conduceva verso il sottoportico, l’altra proveniva da esso.

Guardando le nere aiuole devastate, inspirando il loro odore umido e muffoso, Carr si sentì sollevato dalla presenza di quelle impronte.

Le esaminò più da vicino. Quelle che conducevano verso il sottoportico erano più profonde e spaziate. Ricordò che Jane si era allontanata quasi di corsa.

Ma la scoperta più sorprendente fu che le impronte non raggiungevano in nessun punto la casa. Si arrestavano nella fanghiglia creata dal terriccio soffiato dal vento nel sottoportico, a quasi due metri dai gradini infangati.

Qui le impronte si sovrapponevano confusamente, poi tornavano verso il cancello. Era evidente che Jane era corsa fino al sottoportico, aveva aspettato là sotto fino a quando non era stata sicura che lui se n’era andato, poi aveva ripercorso i propri passi.

A quanto pareva, aveva voluto fargli credere che lei viveva in un palazzo.

Carr tornò verso il cancello. Un ricordo della notte prima stava tentando di affiorargli alla mente. Guardò lungo la recinzione di ferro che correva parallela al marciapiede. Un pezzo di carta appena all’interno della recinzione attirò il suo sguardo: era incastrato tra i rami secchi e neri d’un arbusto. Carr ricordò che qualcosa di bianco era caduto nel buio, svolazzando, dalla borsetta di Jane.

Infilò la mano lungo la recinzione fino all’arbusto e afferrò il pezzo di carta, facendosi largo con difficoltà tra i rami secchi.

Il foglietto era ripiegato due volte e gli orli apparivano consumati e ingialliti come se fosse stato portato in giro per molto tempo. Non era macchiato dalla pioggia. Dispiegandolo, Carr scoprì che era fitto d’una scrittura in inchiostro marrone che gli ricordò vividamente l’avvertimento scribacchiato da Jane ma era molto più piccola e contorta. Con una certa difficoltà, tenendo alto il foglio di carta e spostandosi verso il centro del prato, alla luce morente lesse:

Sempre conservare le apparenze.

Sempre fare qualcosa.

Sempre esser primo o ultimo.

Sempre da solo o in strada.

Sempre avere una via di fuga.

Evita: i negozi vuoti, i cinema e i ristoranti affollati, e le code.

Posti sicuri: biblioteche, musei, chiese, bar.

Mai esitare o sei perduto.

Mai fare niente di strano: non verrebbe notato.

Mai spostare le cose: crea spazi vuoti.

Mai toccare qualcuno: PERICOLO! MACCHINARI!

Mai scappare di corsa, loro sono più veloci.

Mai guardare uno sconosciuto: potrebbe essere uno di loro.

Questi sono i segni: disprezzo, vigilanza, bluff, potere ostentato, crudeltà; loro usano la gente; sono incubi, succubi. Nessuno li nota mai veramente: così non farlo neppure tu.

Alcuni animali sono davvero vivi.

Carr guardò dietro di sé la casa chiusa con le assi di legno. Un uccello si levò dal tetto. Pareva più magro d’un piccione. Forse era una civetta.

Da qualche parte in fondo all’isolato un suono di passi risuonò sul cemento.

Carr studiò la forma del pezzo di carta. Era all’incirca quella di una busta dagli orli strappati. Alla prima occhiata l’altro lato pareva vuoto. Poi Carr distinse un timbro postale sbiadito e un indirizzo. Accese un fiammifero e, proteggendosi dal vento con lo stesso pezzo di carta, distinse un nome: Jane Gregg, e la città, Chicago. Il timbro postale risaliva a poco più di un anno prima. L’indirizzo coperto da una piega, offrì più difficoltà, ma riuscì a decifrarlo: 1924 Mayberry Street.

Il rumore dei passi si era fatto più vicino. Carr alzò lo sguardo. Al di là della recinzione stava passando una coppia! Riuscì a distinguere un colletto bianco e il luccichio di un pettine con lustrini. L’andatura era da persone anziane. Spense il fiammifero quasi con un senso di colpa, ma entrambi lo oltrepassarono senza girare la testa.

Pochi istanti dopo Carr sgusciò fuori del cancello, lo tirò a sé chiudendolo e si avviò nella stessa direzione dei due, attraversando la strada fino all’altro marciapiede prima di oltrepassarli.

Sotto l’illuminazione stradale, le foglie vicino ai lampioni parevano d’un verde artificiale. Accelerò il passo.

In quella direzione non c’era nessun mutamento repentino di ambiente, quanto un graduale deterioramento. Le case erano sempre più accostate le une alle altre, più piccole e più a ridosso della strada. Gli alberi divennero più radi, cessarono del tutto, l’erba scomparve. In fondo alle trasversali cominciarono a brillare le insegne al neon e il rombare dei bus, e gli echi delle radio e delle voci si fecero più intensi. D’un tratto le case si coagularono, raggiunsero il marciapiede d’un solo impeto, schizzarono verso l’alto in torreggianti ondate di mattoni, divennero le caserme delle classi medie, con soltanto uno stretto canale per il marciapiede fra le loro muraglie e le file di macchine parcheggiate paraurti contro paraurti.

Carr pensò con un sorriso forzato alla sua teoria ormai in frantumi di lunghi corridoi coperti da spessi tappeti, lume di candela, l’ereditiera perseguitata. Mayberry Street non era niente del genere.

Gli strani appunti che Jane aveva scribacchiato sulla busta continuavano a balenargli nella coscienza. Se mai c’era stato qualcosa che più aveva del manuale del paranoico…! Eppure…

Un’insegna stradale contorta diceva Maxwell. Al prossimo angolo, Marston. Poi, seguendo l’insensato sistema associativo che così spesso governa la scelta dei nomi delle strade, Mayberry.

Carr fissò i vecchi numeri dipinti sulla porta di vetro della prima casa di appartamenti. Erano il 1954-58.

Mentre percorreva la strada ebbe la sensazione di camminare a ritroso attraverso gli anni.

Il primo piano del 1922-24 era illuminato sul lato del 24, salvo una piccola veranda buia. Dietro a una finestra notò il bordo d’un canapé e un uomo dai capelli grigi in maniche di camicia intento a leggere un giornale. Quando fu all’interno del vestibolo dal basso soffitto, Carr si girò verso le caselle delle lettere in ottone sul lato del 24. La prima diceva: Herbert Gregg. Un istante dopo premette il pulsante, aspettò, lo premette di nuovo.