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La battaglia che seguì fu troppo rapida e confusa perché Carr riuscisse a seguirla con chiarezza e si svolse quasi tutta nella piccola anticamera fuori della sua vista salvo per il gioco delle ombre. Due volte ancora il bastone o l’ombrello furono calati con violenza, il signor Wilson e la signorina Hackman urlarono e si gridarono l’uno all’altro nello stesso tempo, il gatto miagolava e soffiava in continuazione. Infine il signor Wilson urlò: — La porta! — Al che arrivò un ultimo colpo rimbombante seguito, sempre lanciato dal signor Wilson, da un: — Dannazione!

Nei pochi istanti che seguirono dal corridoio giunse soltanto il suono d’un respiro affannoso, poi la voce si levò in un gemito gravido di vendetta: — Brutto bastardo! Guardate cos’ha fatto alla mia guancia. Oh, perché devono esistere i gatti?

Poi la voce del signor Wilson, sinistramente pratica: — Non è scappato. È intrappolato sulle scale. Possiamo pigliarlo.

E la signorina Hackman: — Questo non sarebbe successo se avessimo portato la bestia!

Il signor Wilson: — La bestia! Questo pomeriggio la pensavate diversamente. Ricordate cos’è successo a Dris?

La signorina Hackman: — Quella è stata colpa sua. Non avrebbe dovuto stuzzicarla. Inoltre la bestia ha simpatia per me.

Il signor Wilson: — Sì, l’ho vista che vi guardava leccandosi i baffi. Stiamo sprecando tempo, signorina Hackman. Avrete molto più d’una guancia graffiata o d’una mano troncata per cui gemere e disperarvi se non rimetteremo subito in ordine questo pasticcio. Venite. Dobbiamo uccidere quel gatto.

Carr sentì un rumore di passi, poi la voce del signor Wilson che si faceva via via più fioca mentre saliva le scale, chiamando in tono sommesso e carezzevole: — Micio, micetto, vieni qui micio, micio, micio, micino, micino… — E qualche istante più tardi anche la signorina Hackman si unì a lui con voce talmente zuccherosa da far provare un brivido a Carr: — Vieni qui, micino.

Le voci continuarono ad allontanarsi. Carr aspettò un po’ poi attraversò la stanza in punta di piedi e sbirciò dalla porta del bagno. Il cubicolo, rivestito di piastrelle bianche, era vuoto, ma al di là di esso c’era un’altra porta aperta che conduceva in un’altra camera da letto.

Carr poté vedere che era una camera più piccola ma più accogliente. C’era un piccolo tavolo da toeletta con alcune lampade dai piccoli paralume rosa storti. Sulle pareti riconobbe riproduzioni di dipinti di Degas e Toulouse-Lautrec. Accanto al tavolo da toeletta c’era un piccolo scaffale traboccante di spartiti ammucchiati alla rinfusa e di romanzi dalle vivaci copertine consunte e strappate. C’era una boccetta d’inchiostro sul tavolo da toeletta in mezzo ai cosmetici. Si era rovesciata e ne era sgorgata fuori un larga macchia marrone, ormai asciutta.

Il cuore cominciò a battergli mentre attraversava le bianche piastrelle del bagno. Ricordava l’inchiostro marrone sul foglietto di carta che Jane aveva lasciato cadere. Ma quella camera da letto alla quale si stava avvicinando aveva qualcosa di strano. Malgrado quel vivido disordine adolescenziale, dava la sensazione di qualcosa di antico, quasi da museo: come d’una stanza storica conservata com’era stata lasciata dal suo illustre occupante. Il romanzo sul tavolo da toeletta era il best-seller dell’anno prima.

Però…

Tese la mano oltre la porta.

Qualcosa si mosse accanto a lui, inducendolo a girarsi di scatto.

Ebbe soltanto un breve istante per guardare, prima che il colpo cadesse. Ma in quel breve istante prima che la cappa di dolore gli venisse abbassata con violenza sopra gli occhi e le orecchie, oscurando ogni cosa, riconobbe il suo assalitore.

I tendini del collo risaltavano, le guance erano tirate indietro rivelando i grandi denti anteriori come quelli d’un topo. Invero l’aspetto nel suo insieme, gli occhi acquosi dallo sguardo stralunato, la fronte bassa, i capelli arruffati, la figura tesa, le braccia lunghe e sottili, era quella d’un topo in trappola… era l’ometto scuro con gli occhiali.

7

Luci accecanti lampeggiavano negli occhi di Carr, così intense da causargli un violento mal di testa. Si mise a saltellare tutt’intorno in preda al dolore, agitando le braccia. Gli parve una cosa stupida e degradante a farsi, anche se soffriva, così cercò di fermarsi o quanto meno di alzare le mani per proteggersi gli occhi da quella luce spietata, ma non ci riuscì. Il motivo stava nelle quattro corde che lo tenevano saldamente legato ai polsi e alle ginocchia, corde che si allungavano nell’oscurità sopra di lui, facendolo sobbalzare in aria come fosse una marionetta.

Le corde divennero nere, si fusero con il buio, scomparvero e caddero giù trasformandosi in qualche cosa di morbido e aderente.

Tirandosi su si rese conto di trovarsi nella propria stanza, sul proprio letto, intento a lottare con le lenzuola.

Tremando spinse i piedi fuori del letto e si sedette sull’orlo, aspettando che gli echi di quell’incubo cessassero di mulinare attraverso i suoi sensi, che la sua pelle perdesse quella tensione calda e formicolante. La testa gli faceva un male d’inferno. Sollevò la mano, e sentì un grosso grumo, molto sensibile. Ricordò l’ometto che l’aveva colpito. Una pallida luce stava filtrando dalla finestra. Si alzò, andò alla scrivania, aprì il cassetto superiore. Fissò le tre bottiglie di whisky da una pinta. Scelse quella piena per un quarto, se ne versò un bicchierino e lo ingollò d’un sol colpo. Se ne versò un altro. Si guardò intorno.

Gli indumenti che aveva indossato erano distesi con cura su una sedia in una maniera che non gli era certo caratteristica.

Mentre la testa continuava a vorticargli, si avvicinò alla finestra e guardò fuori.

Ma invece d’una strada vuota, le finestre delle altre camere da letto aperte, le imposte sbattenti e gli altri segni delle prime ore del mattino, Carr vide una piccola folla indaffarata muoversi lungo il marciapiede. Le vetrine erano per la maggior parte illuminate, le insegne al neon ammiccavano. Per quanto poco propenso, decise che doveva essere rimasto privo di sensi non soltanto la notte precedente, ma anche tutta la giornata successiva.

Una sensazione di fresco alle dita l’avvertì che il whisky stava sgocciolando fuori dal bicchierino. Lo bevette e si girò. Si sentì percorrere da una ventata di rabbia nei confronti dell’ometto dalla pelle scura (“è un tuo amico!”). Fu allora che notò una busta senza indirizzo appoggiata sulla mensola del caminetto. La prese, accese la luce, aprì la busta e dispiegò il foglio scritto fitto fitto che conteneva. Era di Jane.

Mi spiace per ieri sera. Spiace anche a Fred, adesso che sa chi sei. Era nascosto nella mia camera da letto e aveva sentito arrivare gli altri e ha pensato che tu fossi uno di loro quando sei entrato così di soppiatto.

Non cercare di trovarmi, Carr. Non metteresti in pericolo soltanto la tua vita, ma anche la mia. Fred e io stiamo lottando contro un’organizzazione che non può essere battuta. Possiamo soltanto nasconderci. Se cercherai di trovarmi, riuscirai soltanto a distruggere ogni mia possibilità di riuscita.

Vuoi avere una vita lunga e felice, sposarti e avere successo, non è così? Non vuoi che il tuo futuro venga cambiato, così da avere davanti a te soltanto qualche mese o ora infelice prima di essere braccato e ucciso? Allora le tue sole possibilità sono di fare quello che ti dico io.

Rimani nella tua stanza tutto il giorno. Poi organizza le tue cose proprio come fai di solito prima di andare al lavoro la mattina. Devi essere preciso, molto dipende da ciò. Soprattutto, brucia questa lettera, ti chiedo di farlo sul tuo onore. Poi sciogli in un bicchier d’acqua la polvere che troverai sul tavolo accanto al letto e bevila. Dopo un po’ ti addormenterai e quando ti sveglierai tutto sarà a posto.