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Invece la sua mente stava cercando una motivazione più logica della psicosi che in qualche modo giustificasse quel comportamento, come se fosse convinto che quella motivazione esistesse davvero e che lui dovesse assolutamente scoprirla.

D’un colpo solo la macchia sulla sua mano sinistra, quel modo vagamente intellettuale di contrarre i lineamenti, l’inquieto ingobbirsi delle spalle e le lunghe, irregolari curve con cui i capelli castani vi ricadevano sopra, parvero suggerire mille cose.

In qualche maniera lui era rimasto coinvolto.

Amore? Sarebbe andato bene in un romanzo rosa. Qui era necessaria una spiegazione molto ma molto più plausibile.

Quel senso d’inanimazione tutt’intorno a lui continuava a opprimerlo, anzi, si era fatto più intenso. In qualche punto, durante gli ultimi minuti, aveva superato il confine tra l’ordinario e lo straordinario, era divenuto qualcosa di più dello straordinario. Ma come faceva lui a saperlo quando non c’era un solo iota di prove concrete e aveva soltanto l’intuizione a sostenerlo?

— Chi è quella donna che vi segue? — le chiese a bassa voce. — È una di loro?

Il terrore le riaffiorò sul viso. — Non posso dirvelo. Per favore, non chiedetemelo. E non guardatela. È importante che si convinca che non l’avete vista.

— Ma come potrebbe pensare altrimenti dopo che si è piantata in quel modo accanto a voi?

— Per favore, oh, per favore! — Quasi piangeva. — Non posso dirvi il perché. Solo… è terribilmente importante che ci comportiamo con naturalezza, che diamo l’impressione di far ciò che dovremmo fare, qualunque cosa sia… Possiamo?

Carr la studiò. Sì, vide chiaramente che era proprio sull’orlo d’una crisi isterica. — Sicuro — annuì. Si rilassò sullo schienale della sua poltroncina, le sorrise e alzò un poco la voce: — Che tipo di lavoro pensate sia più consono alle vostre capacità, signorina…?

— Lavoro? Oh sì, è per questo che sono venuta qui, non è vero? — Per un attimo lo fissò, impotente. Poi, in fretta, con le parole che incespicavano le une sulle altre, riprese a parlare: — Vediamo: so suonare il pianoforte… anche se non molto bene. Soprattutto musica classica. L’ho studiata molto però. Un tempo volevo diventare concertista… E ho recitato in una filodrammatica. So leggere i libri molto in fretta. Narrativa, intendo. So districarmi molto bene nelle biblioteche. E me la cavavo discretamente a tennis… — La sua grottesca animazione si raggelò. — Ma non sono affatto queste le cose che volete sapere, non é vero?

Carr scrollò le spalle. — Mi aiuta a formare un quadro. Una volta anch’io recitavo da dilettante all’università. — Mantenne discorsivo e distratto il tono della voce. — Avete già fatto qualche lavoro regolare?

— Una volta leggevo libri per un editore. Soltanto narrativa però. E per un po’ ho lavorato nello studio di un architetto.

— Avete imparato a leggere i progetti? — le domandò.

— I progetti? — La ragazza rabbrividì. — Non molto, temo. Odio i disegni d’ogni genere, a meno che non siano talmente ingarbugliati che io soltanto so che sono disegni. Sì, i disegni sono trappole: disegni, progetti… Una volta che si comincia a vivere secondo un progetto, gli altri sanno come controllarvi, come impadronirsi di voi. — Si sporse in avanti in atteggiamento confidenziale, agganciando con le dita il bordo della scrivania. — Oh, sono brava a giudicare la gente. Devo esserlo, e suppongo che dobbiate esserlo anche voi. — Quell’inesprimibile domanda le riaffiorò nello sguardo. — Davvero non sapete chi siete? — gli chiese con voce sommessa. — Non l’avete ancora scoperto? Dovete essere quasi sui quaranta. Di sicuro, durante tutto questo tempo… Oh, ma dovete saperlo.

— Non ho neppure la più vaga idea di che cosa state parlando — replicò Carr. — Cosa sono io?

La ragazza esitò.

— Ditemelo — la sollecitò lui.

La ragazza scosse la testa. — Se davvero non lo sapete, non sono sicura di dovervelo dire. Fintanto che non lo sapete, siete al sicuro. Relativamente al sicuro, s’intende. Se avessi avuto l’opportunità di non saperlo so quale scelta avrei fatto. Per lo meno, so come sceglierei adesso. Oh, Dio, sì.

Carr cominciava a sentirsi come il protagonista di quella storiella in cui un tizio si vede porgere da una bella donna un biglietto scritto in francese e che nessuno gli traduce. — Per favore smettetela di comportarvi da isterica — esclamò. — Cos’ho io di così importante? Qualcosa che non so sulle mie origini, il mio ambiente… O la mia razza? Le mie tendenze politiche? Il mio tipo psicologico? La mia vita amorosa?

— Ma se non lo sapete — proseguì lei, ignorando le sue domande — e se non ve lo dicessi, allora vi lascerei correre un rischio… così, alla cieca. Non così grosso ma… terribile. E con loro così vicini e forse già insospettiti… Oh, è così difficile decidere.

— Mi stanno assassinando!

Carr si girò di scatto. La signorina Zabel lo gratificò d’uno sguardo angosciato, lasciò cadere la scheda di una domanda d’impiego nel cestino di fil di ferro e si allontanò ancheggiando. Carr scrutò la scheda. Non era la scheda d’una ragazza. Diceva: “Jimmie Kozacs, maschio. Anni 43”.

Fu conscio che la ragazza spaventata stava studiando di nuovo il suo viso come se si vedesse qualcosa che prima le era sfuggita. Questo lo disorientò ancora di più.

— Forse non lo siete stato fino a oggi — disse più a se stessa che a lui. — E questo spiegherebbe la vostra ignoranza. Forse è stata la mia irruzione qua dentro a causarlo. Forse sono stata io a destarvi.

Intrecciò le lunghe dita dai polpastrelli squadrati, torturandosi i palmi… e la sarcastica osservazione di Carr sul fatto che lui era stato destato fin dagli albori della sua vita morì ancora prima di nascere. — Non avrei mai pensato di far questo a qualcuno — continuò la ragazza. — Non avrei mai pensato che avrei potuto causare a qualcuno l’angoscia che lui ha causato a me! Oh, se soltanto ci fosse qualcuno con cui potessi parlare, qualcuno che potesse dirmi cosa devo fare…

La desolante infelicità della sua voce fece breccia in Carr. — Cos’è questa faccenda? Per favore, ditemelo.

La ragazza lo fissò, scossa. — Adesso? — Descrisse con lo sguardo un mezzo cerchio intorno alla stanza, lasciandolo poi vagare verso la parete di vetro. — No, non qui. Non posso. — Le dita della mano destra si arricciavano come se stesse suonando un frenetico arpeggio. D’un tratto affondarono nella tasca del giubbetto e ne uscirono stringendo un mozzicone di matita tutto rosicchiato. La ragazza strappò un foglio dal blocco d’appunti di Carr e si mise a scribacchiare in fretta.

Mentre Carr la guardava dubbioso, un’ampia zona di tessuto grigio si parò davanti alla sua vista: era Tom Elvested che si era avvicinato a loro dalla scrivania accanto. La ragazza rivolse a Tom una rapida, strana occhiata, poi continuò a scribacchiare. Tom l’ignorò.

— Senti Carr — cominciò in tono amabile — Midge e io abbiamo un appuntamento stasera. Ha un’amica che credo ti piacerebbe. Uno splendore, un sacco di cervello, ma un po’ timida e riservata. Vorremmo che tu venissi con noi.

— Mi spiace ma non posso, ho già un appuntamento — rispose Carr, irritato. L’infastidiva il fatto che Tom discutesse di faccende personali davanti a un candidato.

— Non farti l’idea che ti stia chiedendo un servizio sociale — proseguì Tom un po’ stizzito. — Quella ragazza è bella da morire ed è molto più il tuo tipo di… S’interruppe.

— Di Marcia stavi per dire? — gli chiese Carr. — In ogni caso, è proprio con Marcia che ho un appuntamento.

Tom fissò Carr per un lungo istante. — D’accordo — disse poi allontanandosi. — Mi spiace che tu non possa venire.