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Ma trovarsi in quella casa e sentire un rumore di passi alieni, e sapere che fuori di essa si stendeva una città abbandonata, nella quale uomini e donne potevano essere niente più che statue di cera, in quanto all’aiuto che avrebbero potuto darvi, e sapere che al di là della città abbandonata si stendeva un mondo ugualmente abbandonato, e un universo abbandonato…

I passi si arrestarono fuori della porta. Vi fu un sommesso bussare. Le mani di Carr si strinsero su quelle di Jane. Una pausa. I colpi vennero ripetuti, più forti. Un’altra pausa. Altri colpi, più forti ancora. Una pausa più lunga. Poi un debole raschiare, che durò per qualche secondo. Infine, un breve frusciare.

Quindi i passi e il bagliore luminoso si allontanarono. Lungo il corridoio. Giù per le scale. Silenzio.

Carr e Jane barcollarono. Il loro respiro usciva a rantoli. Carr andò alla finestra. Tirò anche le tende, così da formare una seconda barriera dietro alle tapparelle. Poi accese un fiammifero tenendolo all’interno delle mani chiuse a coppa. Il fiammifero avvampò rosso, poi giallo.

Infilato sotto la porta c’era un foglio di carta piegato in due. Carr lo raccolse. Accese un altro fiammifero. Lessero le poche parole scribacchiate in fretta:

Mio rabbioso Passeggero,

se vi è possibile, incontriamoci domani sera alle sette davanti alla Biblioteca Pubblica. Portate Jane, se sapete dove si trova. Ho fatto una scoperta molto importante.

Il Vostro Folle Autista

13

Da dietro le turrite, nere muraglie dei depositi, dei montacarichi, dei ponti e delle gru che s’innalzavano verso occidente, il sole calante proiettava giganteschi spruzzi d’un rosso cupo infuocato che inondavano l’immensità del cielo sopra il fiume Chicago. Bordava di sangue le immani spalle dei grattacieli che si affollavano intorno al ponte della Michigan Avenue come una mandria di grigi mammuth in sosta accanto al fiume per la notte. Sfavillava sulle finestre simili a occhi multisfaccettati che guardavano a ovest ma lasciavano nel buio quelle rivolte a oriente: le piccole, malignamente intelligenti finestre-occhi che esprimevano i duri pensieri alieni guizzanti nei labirinti di tutte le grandi città sin dai tempi di Ur, Alessandria e Roma. Gli sprazzi trasformavano le piastrelle bianche della Wrigley Tower in un delicato rosa salmone e le finiture dorate del palazzo della Carbon and Carbide in un rame rosato.

Molto più in basso il bagliore vermiglio si rifletteva sulle acque del fiume toccando con il suo colore sanguigno una nera chiatta a motore; destava deboli e incerti bagliori purpurei sull’asfalto e sul cemento della strada che costeggiava il fiume e del gigantesco ponte che l’attraversava, ma penetrava appena gli oscuri rettangoli sottostanti: le finestre che si affacciavano sul ponte dal di sotto, sulla strada al di sotto della strada: quel sottomondo lastricato di ciottoli e di cemento, percorso da camion rombanti e affollato da macchine parcheggiate, impastato dalla polvere del carbone e da ogni altro tipo di sudiciume, disseminato anch’esso d’ammiccanti insegne al neon, là, sotto l’estremità settentrionale del distretto del raccordo anulare di Chicago.

La stessa luce metteva in risalto il colore dei vestiti, smarrendosi in quelli più scuri, del torrente di figure che si muovevano come tante formiche stanche lungo il ponte superiore, la cavalcata irregolare e senza scopo di minuscole figure rese ancora più piccole e ancora più senza scopo dagli enormi edifici che incombevano su di esse.

Carr e Jane si muovevano alla deriva nel cuore di quella folla; intorno a loro le spalle e i gomiti mulinavano, voci senza senso turbinavano sulle più intense correnti sonore che s’innalzavano dai camion e dalle automobili. Talvolta quella fiumana faceva fugacemente volteggiare nel loro raggio visivo un ombrello o una valigetta. Vennero trasportati attraverso il ponte fin dentro il lungo canyon più oltre, passando davanti alla nera sommità delle gradinate situate a intervalli, che conducevano giù fino alle strade del livello più basso. Evitarono di guardare i volti delle figure intorno a loro, malgrado Carr non riuscisse a fare a meno di osservare certe stranezze, ad esempio un autobus fumante con la folla che si accalcava tutt’intorno; la figura d’un uomo-sandwich che stava facendo la pubblicità a qualcosa; e il profilo d’una donna che teneva al guinzaglio un cane nero, sgraziato.

Finalmente si trovarono davanti al buio promontorio della Biblioteca Pubblica. Qui, girarono il volto l’uno verso l’altra, come avrebbero potuto fare due tuffatori prima di saltare dal trampolino.

Si strinsero ancora di più l’uno all’altra, sempre tenendosi a braccetto, la mano stretta nella mano. Poi tornarono a guardare davanti a sé e attraversarono la strada. Qui la folla, accresciuta dagli affluenti diretti al sottopassaggio pedonale dell’Illinois Central, era ancora più fitta. La figura della donna con lo strano cane nero era subito davanti a loro. Avevano fatto all’incirca una dozzina di passi quando un varco si spalancò casualmente nella massa dei corpi consentendo loro di guardare in un corridoio piuttosto lungo di marciapiede vuoto. Carr sentì la mano di Jane allentarsi nella sua per poi stringersi di quel temporaneo passaggio rivolto verso di loro, c’era l’ometto dalla pelle scura con gli occhiali.

Li vide ed esibì un fantastico sorriso. Cedendo a un impulso più profondo della prudenza, sollevò la mano in un teatrale gesto di saluto.

Ma poi il suo sguardo deviò su qualcosa di più vicino. L’ometto arretrò. Le sue spesse lenti lampeggiarono quando tirò indietro di scatto la testa. Si batté le mani sul petto, le braccia rigide contro le costole, come per proteggersi il cuore. Poi, mentre il corridoio che il caso aveva creato cominciava rapidamente a rinchiudersi, guardò di nuovo Carr e Jane con un’intensità angosciata, carica di paura.

Poi, proprio mentre il corridoio davanti a loro si chiudeva del tutto, lanciò un grido inarticolato, fece un balzo come fosse una marionetta e corse via.

Nel medesimo istante altre tre figure si staccarono dalla folla che si stava interponendo e si lanciarono al suo inseguimento. Due erano uomini. La terza era la donna con il cane.

Senza una parola, Carr e Jane si misero a loro volta a seguirli con passo sempre più veloce, fino a quando non cominciarono a correre anche loro. Sopra le teste della gente e nei varchi che qua e là si aprivano, Carr poté cogliere scampoli della caccia: l’ometto dalla pelle scura che correva a zig zag abbassandosi alla ricerca di nuove brecce tra la folla, compiendo ogni pochi passi uno di quei balzi incredibili con i tre inseguitori lanciati alle sue calcagna.

La folla non reagì. Nessuno girò la testa a guardare, nessuno si fece da parte di scatto, non si levò nessun grido, nessuno sporse la testa dalla finestra. Perfino le figure intorno alle quali gli inseguitori e l’inseguito sfrecciavano schivandole ed evitando di farle cadere per pochi centimetri, neppure queste mossero un singolo capello, ma continuarono a sorridere con identica soavità, a chiacchierare con uguale vivacità e a sbirciare con la stessa circospezione le donne giovani e belle, come se niente avesse turbato la grazia di quel pomeriggio.

Carr accelerò la sua corsa. Per un attimo poté vedere che l’ometto ce la faceva, stava perfino guadagnando terreno. Avevano ormai oltrepassato la biblioteca ed erano arrivati all’isolato successivo.

Poi vide il signor Wilson che faceva gesti frenetici alla signorina Hackman. Questa rallentò e si fermò, e l’addensarsi della folla impedì a Carr di continuare a vederla. Un attimo più tardi, una forma che compiva lunghi balzi senza nessuna fatica scattò in avanti: una forma lupina nera come il carbone, che però conservava ancora qualcosa di felino.

L’ometto dalla pelle scura guardò indietro ancora una volta, e schizzò fuori dalla folla come un burattino a molla. Poi fece qualche altro passo e, sempre freneticamente correndo, si precipitò dentro un negozio di abbigliamento maschile.