Carr si mise a descrivere la signorina Hackman, il signor Wilson, e Driscoll Aimes. Aveva quasi finito di descriverli quando battelliere l’interruppe: — Li conosco. Gente spregevole. Ho visto quel loro perfido gatto nero.
Scolò quanto rimaneva del whisky poi restò lì seduto a giocherellare con quelle mani dalle grosse nocche. Finalmente si alzò in piedi. Il bicchiere rotolò attraverso il pavimento. Il battelliere raggiunse barcollando la porta, la socchiuse, poi la spalancò del tutto. Il buio e i rumori della città fluirono dentro. Si guardò intorno.
— Voi tornàtevene a casa — bofonchiò rivolto a Carr. — Voi e la vostra ragazza. Non preoccupatevi di niente, lasciate fare al vecchio Jules. Ho parecchie conoscenze. — Sventolò la grossa mano verso Carr. — Tornàtevene a casa. — Poi varcò incespicando la porta e se la chiuse alle spalle.
Carr si rizzò a sedere mordendosi le labbra per vincere l’improvviso attacco di vertigini. Protese le gambe oltre l’orlo della cuccetta e rimase seduto, immobile, con l’aria fresca che gli correva lungo la pelle, le pareti della cabina che ondeggiavano avanti e indietro, lentamente, per erompere, di tanto in tanto, in una cascata di fugaci scintille.
Dopo un po’ si rizzò in piedi, sempre tenendosi aggrappato all’orlo della cuccetta. Non appena la sua vista divenne chiara e ferma attraversò la cabina, ricordandosi di chinarsi fino a quando le sue dita non raggiunsero gli indumenti là dov’erano appesi, resi rigidi dall’acqua sudicia. Si rivestì con impacciata lentezza, come un bambino. I calzoni erano incollati insieme, e dovette passare le mani sopra le gambe per scollarli e poterli infilare.
Sentì in lontananza la sirena di una nave sul lago. Terminò di vestirsi e se ne stette lì a lisciarsi l’abito. Poi si diresse verso la porta, riuscì ad aprirla con difficoltà e uscì sullo stretto ponte.
I rumori della notte ormai avanzata di Chicago lo avvolsero: il solitario ronzio del traffico, un lontano scampanio stonato, lo sferragliare di un treno sulla sopraelevata attraverso il ponte della Wells Street, il rombo di macchinari inidentificabili. Carr vide sul lato opposto del fiume tre o quattro file di fari che si facevano strada lungo i due livelli della Wacker Drive, una luce rossa di avvertimento sulla riva, qua e là qualche chiazza illuminata tra le finestre dei torreggianti edifici, e i loro riflessi ondeggianti sull’acqua nera mobile come mercurio.
Carr si rese conto che la chiatta era ormeggiata sul lungofiume, soltanto che lui, in quel momento, si trovava sul lato della chiatta lontano da questo. Con traballante cautela, aggirò il ponte sul lato di poppa, trovò l’altra sponda, sbirciò sopra la murata, vide che fra lui e la pietra della riva non c’erano più di trenta di centimetri d’acqua. Aspettò un attimo, scavalcò la murata, recuperò l’equilibrio.
Proprio allora un vivido bagliore rosso fiammeggiò alle sue spalle, illuminando i mattoni e la pietra della riva come se fosse giorno. Stringendo spasmodicamente la murata, premendo le gambe, contro di essa per non cadere, Carr girò la testa. Vide il battelliere in piedi a prua con un razzo di segnalazione delle ferrovie che gli sfrigolava in mano. Contro la superficie nera del fiume, la metà inferiore del suo corpo gigantesco tagliata fuori dal basso tetto della cabina, la sua schiena in ombra, i grumi possenti dei suoi muscoli, il suo ampio volto e i capelli aggrovigliati riflettevano l’accecante bagliore rosso, e lui pareva un reggitore di torce nell’inferno, un segnalatore in riva allo Stige. Vide Carr. Per sette volte mosse la torcia in cerchio, poi altre sette volte e infine la scagliò in alto nell’aria, facendola roteare.
— Segnali — borbottò enigmaticamente dal lato opposto alla cabina. — Fidatevi del vecchio Jules.
Il razzo ancora acceso venne giù come una piccola meteora e si spense sfrigolando nel fiume.
— Ascoltate! — Carr sentì il richiamo del battelliere anche se quasi non riusciva più a distinguerlo tant’era profondo il buio che era calato all’improvviso dopo lo spegnimento del razzo… oppure era stato il suo stordimento a tornare? — Ascoltate. Lo sentite? — ripeté il battelliere con voce sommessa ed ebbra. Carr tese le orecchie ma non fu conscio di niente se non dei rumori meccanici di Chicago. — Eccolo! — gridò il battelliere: — Clankety-clank… clankety-clank… È il vero suono dell’universo. È la musica delle sfere. È il vostro coro celeste. Non molto dolce vero? — Fece una pausa. Poi, voltandosi verso la città, agitò minaccioso il pugno.
— Ma aspettate! — ruggì. — Aspettate! La vostra ora sta per giungere. C’è un nuovo potere che guida la grande macchina. Un potere che può fondere le città come una fiamma ossidrica fonde l’acciaio. Vedremo se la grande macchina riuscirà a resistere a questo, con la gente ancora tutta addormentata. Vedremo! Vedremo! Vedremo!
La vista di Carr si schiarì. Attraversò il sottile nastro d’acqua e s’incamminò con passo incerto per il lungofiume.
15
Carr aprì la porta della sua stanza e recuperò l’equilibrio appoggiandosi allo stipite. La finestra aveva ancora il nero della notte. Chiamò sottovoce: — Jane? — Non vi fu nessuna risposta. Questo lo fece afflosciare un po’. La testa gli faceva male, il suo corpo era esausto, gli indumenti gli producevano un’acuta sensazione di scomodità.
Ascoltò ancora il fioco e gutturale ronzio meccanico di Chicago alle quattro del mattino, come il ronfare d’un gran numero di gatti rannicchiati e disposti in cerchio. Fu colto da un brivido. Poi raccolse le proprie forze, chiuse finalmente la porta e accese la luce.
Lanciò un’occhiata alla lettera che aveva istintivamente agguantato dalla sua casella al pianterreno. Era di Marcia. Non c’era bisogno che l’aprisse. L’aveva già letta… vediamo… due sere prima. La lasciò cadere.
Un rettangolo di carta appoggiato alla mensola del caminetto attirò la sua attenzione. C’erano soltanto un paio di righe di scrittura. Provò una stretta al petto quando lesse la firma: Jane.
La calligrafia era più affrettata e ancora meno leggibile rispetto a quella che aveva visto altre volte. Ma riuscì rapidamente a capire quanto vi era scritto:
Questo posto non è più sicuro. Sono andata in quella vecchia dimora, al mio alloggio del secondo piano. Raggiungimi là.
Parve a Carr che quel lontano ronfare diventasse un po’ più intenso e minaccioso. Andò alla scrivania, frugò nei cassetti, trovò una torcia elettrica. Irradiava soltanto un fioco bagliore giallo ma se la cacciò in tasca lo stesso.
Fuori, nel buio della notte fonda, le strade erano più deserte di quanto le avesse mai viste prima. I suoi passi parvero lanciare echi alla distanza di parecchi isolati. Provò una vaga gratitudine per le forze del caso che gli avevano aperto una pista, che gli avevano sgomberato la strada dagli automi poiché si sentiva spaventosamente stanco. Soltanto il pensiero che ben presto sarebbe stato insieme a Jane gli consentiva di muoversi. Le orrende scoperte dei giorni scorsi gravavano su di lui con forza schiacciante, come se il suo corpo fosse stato una macchina di metallo che lui doveva tenere in piedi con le deboli energie della carne e dei nervi. Se adesso avesse potuto rientrare nel posto che gli era stato assegnato nella vita, sentiva che gli sarebbero rimaste soltanto le forze sufficienti a compiere il suo lavoro di macchina. Sarebbe stato una macchina e niente più di una macchina.
Se soltanto lui e Jane avessero potuto tornare indietro… Adesso quella possibilità gli appariva estremamente desiderabile, ma infinitamente remota. Le ebbre parole del vecchio Jules, il battelliere, echeggiarono ancora una volta nella sua mente: vuote, remote come una sfida infantile, futile, rivolta a un universo defunto.
Gli isolati scorrevano via lenti. Tutto quello che pareva realmente cambiare era la qualità degli echi dei suoi passi, mentre rimbalzavano prima su questo e poi sull’altro muro.