Quel vuoto nelle strade appariva fantastico. Per un po’ si baloccò apaticamente con l’idea che Chicago fosse stata svuotata di tutti i suoi automi, fino a quando non passò davanti a una singola, isolata figura che indossava un impermeabile scuro, luccicante, accanto ai binari del tram, a un isolato dalla sua destinazione.
La stanchezza lo aggrediva a ondate. Si rese conto che, malgrado avesse appreso soltanto adesso che l’universo era una macchina, lui si era sempre sentito una macchina. La testa gli si accasciò sul petto.
Scoprì che le sue mani stavano stringendo mollemente delle sbarre di ferro battuto. Le agguantò con maggior forza per risollevarsi e guardò verso l’alto. Come in un sogno, la vecchia dimora gli comparve davanti come una catasta incolore avvolta nel grigio chiarore del primo crepuscolo dell’alba. Tutte le finestre erano buie, le più basse più sbarrate che mai, le più alte dai bordi frastagliati di tenebra. Mentre si faceva strada lungo il vialetto coperto di erbacce, passando davanti al consunto cartello con la scritta IN VENDITA, una lievissima brezza fece frusciare le foglie scure sopra di lui per spegnersi quasi subito. Il sentore di umidità del giardino era intenso e aspro.
La grande porta all’ombra del sottoportico era socchiusa di qualche centimetro. Carr ascoltò per un attimo, poi la spinse. La porta strisciò con un lieve gemito sul tappeto raggrinzito, così come il cancello aveva fatto sulla ghiaia. Carr entrò e d’un tratto una buona metà della sua stanchezza scomparve come se quella vecchia casa esigesse un’accentuata vigilanza, quasi un tributo dovutole. L’odore si trasformò da umido a muffito, con una punta d’acqua marcita. Il fievole raggio della sua torcia gli rivelò un pavimento mezzo coperto da un tappeto, l’altra metà scoperta. Le pareti erano rivestite da ragnatele cariche di polvere che mostravano dei rettangoli d’un colore leggermente più pallido là dove un tempo si trovavano appesi dei quadri. Le masse informi di due poltrone coperte da teli. Una scalinata dall’ampia curva, la cui ringhiera era sorretta da colonnine sottili elaboratamente scolpite. E parecchie grandi porte buie.
Carr fece balenare la sua luce verso queste ultime aperture, rivelando altra sporcizia e altro vuoto. In fondo alla fila delle porte che davano sul retro della casa, intravide l’inizio di una seconda scala, più stretta.
Carr si fermò subito all’interno della porta d’ingresso, conscio d’una crescente ansietà. Si rese conto di star aspettando che Jane lo chiamasse: quasi era stato convinto che il raggio della torcia avrebbe rivelato il suo viso. Gli venne in mente per la prima volta quanto fosse strano che lei avesse organizzato le cose in modo d’incontrarlo al secondo piano… senza chiamarlo o scendergli incontro, adesso che l’aveva sentito arrivare.
Attraversò l’atrio fino alla scala più grande, tendendo le orecchie a ogni passo, e cominciò a salirla. Spense la torcia. I gradini scricchiolavano leggermente sotto il suo peso. L’odore della vecchia polvere stava diventando più intenso, perfino i suoi cauti passi dovevano sollevarne nuvolaglie. Guardò su per la tromba ovale delle scale, verso l’ovale più piccolo di tenebra più pallida che indicava il soffitto del secondo piano, là dove le finestre infrante dovevano lasciar passare un po’ di luce. Gli parve che quell’ovale più piccolo mostrasse un’irregolarità, come se (forse) una testa si fosse sporta a sbirciare verso il basso. Ma quando salì di un altro gradino, non riuscì più a vederla. Per qualche ragione, la sua immaginazione continuava a raffigurarsi non Jane, ma la figura in impermeabile nero accanto alla quale era passato vicino ai binari del tram. Non aveva neppure guardato il suo viso, ma adesso desiderò di averlo fatto poiché provava la tardiva sensazione di averla riconosciuta.
Si fermò sul pianerottolo del primo piano, poi riprese a salire. Dopo altri sei gradini, si arrestò di botto.
Adesso non poteva esserci nessun errore. Era lassù che sporgeva da sopra la voluminosa balaustra in cima alle scale, il buio più scuro di una testa contro il buio meno denso del soffitto. Il silenzio parve coagularsi intorno a lui mentre la scrutava.
Di scatto puntò la torcia in quella direzione, l’accese. Nel cerchio di luce gialla vide il volto di Jane che lo fissava in preda al terrore.
Chiamò il suo nome, fece di corsa gli ultimi gradini. Poi furono l’uno nelle braccia dell’altra. Carr sentì svanire l’ultima traccia di stanchezza, poi la sentì tornare in un impeto momentaneo, al punto da farlo barcollare là in cima alle scale mentre la stringeva a sé ebbro di gioia.
— Tesoro, avevo tanta paura che non fossi tu — gli disse lei d’un fiato, affondandogli le dita nelle spalle. — Perché non mi hai chiamato?
— Non lo so — balbettò lui. — Mi aspettavo che lo facessi tu.
— Ma non potevo essere sicura che fossi proprio tu — rispose lei. — Perché ci hai messo tanto? È stata l’attesa qui nel buio a spaventarmi. Sono qui da ore. Cosa ti è successo?
Con poche brevi frasi Carr le spiegò perché era scappato via da lei e le descrisse per sommi capi il suo tuffo nel fiume il suo successivo salvataggio da parte del battelliere.
— Sì, ma dopo? — lei insisté. — Che hai fatto dopo?
— Sono venuto direttamente qui — le disse Carr — subito dopo essere tornato nella mia stanza.
— Non è possibile — ribatté lei scostandosi leggermente. — Sono passate ore.
— Cosa vuoi dire? — le chiese lui, perplesso.
— E come mai tutto è successo così in fretta? — continuò lei rapidamente. — Quella faccenda con il battelliere, voglio dire. Non può essere passata più di mezz’ora, dopo che ti ho perso di vista in mezzo a quella folla vicino alla biblioteca, da quando sono tornata in tutta fretta nella tua stanza, eppure quando sono arrivata c’era già il tuo biglietto ad aspettarmi.
Carr l’afferrò per le braccia. Il silenzio nella vecchia casa era divenuto mortale. — Il mio biglietto?
— Sì, quello che mi diceva di venire qui ad aspettarti.
Carr cercò di studiare l’espressione di lei in quel buio grigiore. Sotto le sue mani, sentì le braccia di Jane che s’irrigidivano, come se i timori che andavano accumulandosi in lui filtrassero dentro di lei.
— Jane — bisbigliò — sono tornato nella mia stanza soltanto venti minuti fa. Non ho lasciato nessun biglietto. Sono venuto qui perché ho trovato il tuo.
— Il mio…
— Il tuo biglietto.
— Ma Carr, io non ho… — cominciò lei. Poi la sentì sussultare e immobilizzarsi come un animale spaventato.
Sentì, nel silenzio, un lieve strusciare. Lo sentì una seconda volta… e poi un acuto lamento.
Era l’ingresso del sottoportico che si stava aprendo.
Poi un rumore di passi nel grande atrio, due piani più sotto.
Come se fosse qualche altra persona a parlare, un riflesso di Carr che pensava alle tattiche e alle strategie mentre il Carr principale era ipnotizzato dalla paura, si sentì bisbigliare: — C’è un’altra scala sul retro. Potremmo…
Proprio allora, come se fossero state fantasticamente amplificate dall’eco, le parole gli giunsero tonanti da sotto: — C’è un’altra scala sul retro.
Ma il timbro era quello squillante e gradevole del signor Wilson.
— Tutto a posto. — Il timbro acuto e compiaciuto della signorina Hackman fendette come un razzo quello più grave del signor Wilson. — Se cercheranno di usarla, Daisy se ne accorgerà, non è vero, cara?
Carr sentì Jane in preda a un tremito spasmodico, per poi tornare a immobilizzarsi. Cercò di allontanarla dalla cima delle scale, ma era rigida come un bastone. Gli pareva che tutto stesse accadendo al rallentatore, cosicché quando una terza voce più vivace salì dalla tromba delle scale dicendo: — Diamoci da fare — queste tre parole parvero giungergli all’orecchio distanziate di molti metri l’una dall’altra. L’odore della polvere nelle sue narici era qualcosa che andava annusato con attenzione, esaminato con precisione. Alla luminosità crescente, cominciò a distinguere il disegno a foglie e a tralci della carta da parati dietro la testa di Jane.