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Un trepestio di più passi risalì le scale, e in mezzo ad essi un ritmico e rapido rumore felpato. Dal punto in cui si trovava, Carr poteva sbirciare trasversalmente giù per la tromba delle scale fino a un breve segmento della prima rampa, che era ancora immersa nel buio. Ma poi parve, alla sua vista acuita, che una oscurità più lustra e luminosa balenasse per un istante là sotto. Come una sbuffata di profumo da due soldi, salì dalla tromba delle scale la voce zuccherosa della signorina Hackman: — Non c’è fretta, Daisy. Avrai tempo in abbondanza.

Ancora una volta Carr cercò di tirar via Jane. La ragazza non volle muoversi. Eppure dentro di sé si rese conto che quel tentativo da parte sua era poco più d’una simulazione, che l’altro Carr, il quale stava pensando alle possibilità di difesa offerte da quella stanza con le finestre a pezzi intorno a loro, stava diventando un’ombra sempre più vaga a ogni istante che passava.

No, era fatta. Quella era la fine d’una coppia di amanti che avevano scoperto come la vita fosse molto simile a una notte passata per scommessa in un museo delle cere dove alcune delle figure fossero finalmente diventate vive. La fuga in un mondo morto che non offriva nessun rifugio era inutile. Carr ebbe la momentanea visione del destino dell’ometto dalla pelle scura con gli occhiali. No, non c’era proprio niente che potessero fare.

Jane era come una statua fra le sue braccia, salvo che poteva sentire i suoi respiri terrorizzati mentre salivano e scendevano attraverso la sua gola. La sua mente era curiosamente vuota, attenta a cose così banali come la carta da parati, la luce e l’identità della figura con l’impermeabile nero accanto alla quale era passato poco prima, vicino ai binari del tram. Per qualche motivo, quell’interrogativo lo tormentava.

I passi lungo le scale rallentarono.

— Bene, non c’è dubbio che siano là sopra. Il capello è spezzato. — Le parole del signor Wilson avevano un suono eminentemente pratico, anche se erano inframmezzate dall’ansimare. Poi, quando i passi arrivarono al pianerottolo del primo piano: — Aspettate un momento. Mi manca il fiato.

— D’accordo. Giù Daisy. — La voce della signorina Hackman era amabilissima.

— Sst! Vi sentiranno. — Questa era la voce di Dris.

La signorina Hackman si attardò amorevolmente sulla sua risposta, profondendovi ogni possibile ipocrisia. — Lo so che ci sentiranno.

Carr studiò il disegno della carta da parati. Gli parve di poter distinguere il graduale intensificarsi della luce, come il movimento della lancetta dei minuti d’un orologio. Notò un ispessirsi dell’odore di muschio, come se fosse causato dalla polvere sollevata da tanti passi.

Dal pianerottolo sottostante giunse lo sbuffare del signor Wilson e un rapido rumore di zampe felpate in movimento in uno spazio molto breve. Carr riuscì a immaginarseli con molta chiarezza anche se la sua mente paralizzata si ostinava perversamente a dare molta più importanza alla figura con l’impermeabile scuro… Il signor Wilson era seduto sul gradino più alto, il petto che gli si alzava e si abbassava vistosamente per l’affanno, le ginocchia sollevate, facendo magari attenzione a tenere il bordo del suo cappotto lontano dalla polvere. Dris con la schiena appoggiata alla parete, un’ombra sottile, una mano e un uncino sui fianchi. La signorina Hackman con un piede sul gradino più alto, uno sul penultimo, protesa in avanti, con addosso qualche smagliante vestito, un gomito sul ginocchio, i capelli biondi che le ricadevano a cascata intorno al viso.

Nell’altra mano stringeva un corto guinzaglio, all’altra estremità del quale andava avanti e indietro quell’oscurità più luminosa e lustra. Mentre parlavano, Carr poteva immaginare vividamente le loro espressioni, malgrado l’altro problema insistesse a sembrargli molto più importante.

— Su, avanti — li sollecitò Dris brusco.

— Non c’è proprio nessuna fretta — gli garantì la signorina Hackman. — Buona Daisy!

— Comunque, sarebbe stato più semplice farli fuori dov’eravamo prima — continuò Dris.

— Per poi dover passare ore e ore a ripulire il pasticcio? — La risposta della signorina Hackman fu pronta e sprezzante. — Vi siete dimenticato quale problema abbiamo avuto a causa dell’ometto con gli occhiali? Mezz’ora in ginocchio a ripulire per terra.

— Non eravate molto entusiasta neppure voi — ribatté lui.

— Quello non m’interessava. Questo sì. Qui non dobbiamo fare le cose in fretta e preoccuparci di dover pulire a cose fatte. — Fece una pausa di riflessione. — Ah, quanto sono stati stupidi a farsi attirare qui da quei biglietti! — esclamò poi con voce allegra. — Come è stata stupida la ragazza a credere che non sapessimo che aveva l’abitudine di venire qui. Com’è stato stupido da parte di tutt’e due comportarsi in maniera così totalmente ingenua! E com’è stato stupido lui a non rendersi conto che potevamo procurarci il suo indirizzo di casa presso l’ufficio in cui lavora. Quasi troppo facile. Comunque — proseguì soprappensiero — sono vivi, e sono soltanto i vivi che divertono sul serio.

— Andiamo avanti — insisté Dris.

— No. Avete un appuntamento con la vostra ragazza.

— Non siate ridicola. No, ho la sensazione che ci stiano sorvegliando.

— Sciocco ragazzo. — La voce della signorina Hackman risuonò completamente felice. — Certo che ci sorvegliano… e ci ascoltano, per giunta.

— Non intendo parlare di loro — ribatté Dris.

Ma Carr non stava prestando nessuna attenzione a ciò che dicevano, poiché aveva appena ricatturato un ricordo che perversamente gli dava una grande soddisfazione: l’identità della figura in impermeabile scuro.

Sì… era uno degli uomini che si erano trovati sul marciapiede della South State Street quando lui e Jane erano scappati.

— Hai una sensazione Dris? — Il signor Wilson era finalmente riuscito a recuperare il fiato e a parlare, ma non manifestava il minimo, squillante entusiasmo. Anzi, era quasi apprensivo.

— Sì.

— Allora finiamola in fretta. — I gradini scricchiolarono quando sollevò il suo corpo grasso, il rumore dei passi ricominciò, e vi fu un fremente cambiamento nel ritmico rumore felpato. Poi: — Cos’è stato? — Il signor Wilson aveva quasi urlato.

— Stanno cercando di scappare giù per la scala sul retro! — strillò la signorina Hackman. — Daisy!

— No, non è vero! Siete un’idiota! — tuonò il signor Wilson. — Io credo…

— Vi avevo avvertito… — cominciò a dire Dris.

— Mio Dio, sono… — cominciò il signor Wilson.

Ma Carr era così immerso nel ricordo che aveva ricatturato, che a tutta prima la cosa non gli parve importante… forse era qualcosa che la sua mente malata immaginava, ma all’improvviso udì un rumore di passi in corsa sul pavimento al piano di sotto, più passi di quanti avrebbero potuto produrne quei tre, e per di più arrivavano dal retro della casa e salivano con fracasso le scale dal pianterreno.

Perfino con Jane sussultante fra le braccia quando, con sconvolgente fragore moltiplicato da echi nella tromba delle scale, giunse fino a loro lo schianto d’una mezza dozzina di fucilate, Carr non riuscì a rendersi completamente conto di quanto stava accadendo, o meglio, si rese conto adesso che quanto stava accadendo quadrava con quel ricordo da lui catturato, e come questo conducesse dalla South State Street attraverso il bagliore rosso di un razzo da segnalazione delle ferrovie fino alla chiatta del vecchio Jules, all’uomo in impermeabile scuro accanto ai binari del tram, e infine lì.