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— Dottor Wexler — farfugliò — ho una specie di balordo tra le mani, e credo stia per avere una crisi. Volete…

Ma il dottor Wexler proseguì senza rallentare e scomparve dietro la tenda nera del cubicolo per i test della vista. Nell’istante in cui Carr guardava i due lembi della tenda nera ricongiungersi dietro la schiena del dottore, un improvviso spasimo d’estremo terrore lo afferrò, come se qualcosa di gigantesco e ostile fosse in bilico dietro di lui… Non osò sollevare la testa, né alzare lo sguardo: non fece una sola mossa.

Era come il brivido momentaneo che aveva avvertito quando nessuno aveva reagito allo schiaffo. Soltanto, assai più intenso.

I suoi sentimenti erano un po’ come quelli di un uomo al museo delle statue di cera che parli a una guida e scopra di essersi rivolto a una delle statue.

I suoi pensieri paralizzati si sbloccarono d’un tratto e fulmineamente afferrarono l’analogia, affrontandola morbosamente.

Se tutto il mondo fosse stato un museo di figure di cera? In movimento, naturalmente, come tanti meccanismi d’orologio, ma del tutto meccanici, senza una mente o uno scopo?

E se lui, una statua di cera come tutte le altre, si fosse d’un tratto animato e avesse abbandonato il suo posto lasciando che lo spettacolo andasse avanti senza di lui perché era solo un grande meccanismo del quale non gli importava, o che addirittura neppure sapeva se lui fosse presente o no.

Ciò avrebbe spiegato quell’uomo basso e grasso che stava facendo la sua parte in un’intervista all’agenzia di collocamento: una sorta di giocattolo meccanico che continuava a funzionare lo stesso anche senza il suo partner. E avrebbe anche spiegato perché Tom e il dottor Wexler l’avevano ignorato.

Sì… se tutto questo fosse stato vero.

Se i confini del mondo fossero stati più vicini a voi della mente che pensavate si trovasse dietro la faccia alla quale vi rivolgevate?

E se tutte le parole e le frasi che la gente diceva, e che sembravano tanto ricche di significato, fossero state soltanto qualcosa di registrato su una specie di disco fonografico un milione di anni prima?

E se foste stato completamente solo?

Per un istante ancora la catena dei suoi pensieri (era stata questione soltanto di pochi momenti) lo tenne paralizzato. Poi si riebbe con un sussulto.

La vita rifluì nell’ufficio. La gente si muoveva e parlava. Carr quasi scoppiò in una fragorosa risata per quel suo assurdo spasimo di terrore. Com’era stato idiota ad allarmarsi perché Tom, che senza dubbio era stizzito nei suoi confronti a causa della loro recente conversazione, aveva temporaneamente ignorato una domanda borbottata che forse non aveva neppure sentito! O perché la stessa cosa gli era successa con il dottor Wexler, la cui sordità e le costanti preoccupazioni erano note a tutti! E com’era stato sciocco da parte sua perdere il controllo soltanto perché si era trovato per le mani un candidato che era un po’ psicotico!

Si raddrizzò e tornò alla propria scrivania, cauto ma fiducioso.

L’uomo basso e grasso stava ancora farfugliando all’aria ma il suo volo era ritornato del colore originario. Carr lo ignorò e abbassò gli occhi sulla scheda che la signorina Zabel gli aveva portato qualche minuto prima.

— Jimmie Kozacs. Età 43 anni.

L’uomo pareva all’incirca di quell’età.

Un po’ più in basso sulla scheda Carr lesse altre parole: — Ispettore al Magnetismo. — Se ricordava bene, i compiti del lavoro in questione concordavano con le cose che l’uomo aveva detto. L’uomo a questo punto si alzò. Di nuovo raccolse qualcosa nell’aria. — Così, tutto quello che devo fare è mostrargli questo al cancello? — commentò con voce grave. — Grazie molte, ehm… — Gettò un’occhiata alla targhetta col nome sulla scrivania di Carr. — …signor Mackay. Ah, state pure comodo. Be’… grazie.

L’uomo strinse con mano vigorosa il niente, si girò e si allontanò. Carr lo seguì con lo sguardo mentre usciva. Un sorriso che era per metà divertito, ma nervoso, e per metà di sollievo gli aleggiò sulle labbra.

La signorina Zabel arrivò ondeggiando con un mucchio di cartelle d’archivio.

— Giuro che le farò a pezzi e le donerò alla ricerca medica — gemette, rivolta a Carr.

Carr ridacchiò: la sua sensazione di normalità era stata ripristinata.

2

Carr fece i gradini bordati di ottone a tre per volta, attraversò l’atrio e varcò con una spinta la porta rotante, cosa che lo faceva sempre sentire come uno scoiattolo in gabbia, e si unì alla folla che sciamava verso il Michigan Boulevard.

L’illuminazione stradale cominciava a integrare la luce crepuscolare imprigionata fra le mura degli edifici come in tanti canyon. Gli strilloni urlavano. Le fermate degli autobus e le isole pedonali di dubbia salvezza erano affollate come le scale che conducevano alle lunghe banchine dei treni della metropolitana. Dalle ampie porte dei garage multipiano le automobili stavano lentamente uscendo a scaglioni insinuandosi nel denso traffico. Altre macchine erano bersaglio di raffiche di clacson quando si fermavano un attimo per far salire altri passeggeri. Solitari pedoni sfrecciavano tra i paraurti in un modo che avrebbe fatto sussultare chiunque in una città meno babelica di Chicago.

A Carr pareva sempre meraviglioso potersi smarrire nel ritmo delle ore di punta fuggendo dall’Agenzia Generale di Collocamento, e ritrovarsi dove gli individui erano individui e non soltanto un assortimento di capacità di lavoro, livelli di salario e referenze scritte. Naturalmente, Marcia avrebbe ridato fiato a quell’angosciosa questione del lavoro, applicandola direttamente a lui… ma non per il prossimo paio d’ore, grazie a Dio!

Carr decise che ciò che non andava in lui doveva essere il fatto che era portato a considerare la gente soltanto come postulanti dell’Agenzia Generale di Collocamento. Doveva essere quella la spiegazione del suo attacco di nervi di quel pomeriggio. Aveva pensato talmente a lungo alla gente come a mero materiale umano grezzo, come a qualcosa che si accompagnava ai moduli delle domande e che sarebbe stato assai più comodo se fossero stati spediti inscatolati… gli era stato inculcato quell’atteggiamento per tanto di quel tempo, un noioso mese dopo l’altro, che adesso la gente si stava vendicando di lui comportandosi in modo rigido nei suoi confronti come se lui non esistesse.

Carr ridacchiò. La psicosi dell’uomo basso e grasso era insolita. Aveva letto di casi in cui i pazzi si comportavano in quello stesso modo più e più volte, con la più grande insensatezza, arrivando perfino a complicati intermezzi drammatici completi di parole e gesti. Ma ci sarebbe stato da pensare che simili intermezzi si sarebbero focalizzati intorno a qualche situazione dalle caratteristiche ben più tragiche d’una semplice domanda di lavoro. Comunque, se ci pensavate bene, quale situazione aveva maggiori potenzialità tragiche del tentativo di trovare un posto di lavoro?

Carr giunse a Michigan Boulevard. La parete di spazio vuoto sul lato opposto alla muraglia degli edifici che costeggiavano il lato su cui era lui, gli risollevò lo spirito. Una frangia d’alberi inquieti accennava alla presenza del lago, appena più oltre. L’Istituto d’Arte tracciava un disegno classico contro il cielo plumbeo. Qui l’aria pareva trattenere ancora una traccia della frescura della pioggia di quel mattino. Carr cominciò a pensare a Marcia, quando girò verso nord con passo rapido e spigliato, ma dopo un po’ la sua attenzione venne deviata verso un omettino che camminava a poca distanza davanti a lui, con passo ugualmente rapido. Le gambe di Carr erano considerevolmente più lunghe, ma l’ometto aveva un caratteristico modo di saltellare a ogni passo. I suoi movimenti davano l’impressione di qualcosa di elusivo; procedeva costantemente a zig zag, cercando i varchi tra la folla. I suoi capelli scuri erano lunghi e scarmigliati.

Carr provò uno di quegli impeti di curiosità destati a volte da una figura sconosciuta. Fu tentato di accelerare il passo in modo da poter dare un’occhiata al volto dello sconosciuto. In quell’istante, l’ometto si girò di scatto. Carr si fermò. L’ometto lo scrutò attraverso gli occhiali dalle lenti spesse cerchiate di corno. Poi, quella che pareva un’espressione d’estremo orrore attraversò il volto dello sconosciuto. Per un attimo si rannicchiò, come completamente paralizzato. Poi, con uno scatto veloce, si girò e sfrecciò via, superando la gente quasi a passo di danza, correndo da un lato all’altro per scomparire infine alla vista dietro all’angolo successivo, come una marionetta strappata fuori dal palcoscenico.