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Mancò poco che Carr scoppiasse in una risata incontrollata. La ragazza spaventata aveva scritto: Ma l’uomo piccolo con la pelle scura e gli occhiali è vostro amico. Certamente non si comportava così!

Qualcuno urtò Carr da dietro, e lui schizzò in avanti: una reazione nervosa, l’intenzione semitardiva d’inseguire l’ometto dalla pelle scura. Ma dopo aver fatto di corsa una dozzina di passi, capì che si stava rendendo ridicolo e che in ogni caso non avrebbe potuto riguadagnare il vantaggio iniziale dell’altro.

Era come se il regolatore automatico di una macchina temporaneamente guasta avesse ricominciato a funzionare. Riprese la sua precedente andatura, non tanto rapida da richiamare l’attenzione. Era rientrato nel ritmo delle ore di punta. Guardò verso l’incrocio successivo. L’ometto scuro non era visibile da nessuna parte. Da come se l’era filata, a quest’ora avrebbe potuto benissimo trovarsi a tre isolati di distanza. Carr sorrise. Gli venne in mente che non aveva nessuna ragione per credere che quello fosse l’ometto dalla pelle scura della ragazza spaventata. Dopotutto dovevano esserci migliaia, milioni (pensiero folgorante!) al mondo di ometti scuri con gli occhiali.

Ma Carr scoprì di non potersi dimenticare tanto facilmente di quell’individuo ridendoci sopra. Gli aveva risvegliato lo stesso stato d’animo che la ragazza spaventata aveva evocato in lui quel pomeriggio, una sorta di eccitazione inquieta e frustrata. Nella sua mente, Carr continuava a vedere il volto della ragazza spaventata.

Se la raffigurava come una studentessa universitaria, di quelle pronte a saltare le lezioni per sedersi sul bordo d’una fontana mettendosi a discutere molto seriamente con qualche giovanotto sul significato dell’arte. Con qualche macchia d’inchiostro sulle guance e sul naso. Il ritratto le andava a pennello: bastava rievocare quella vivida e scioccante ingenuità quando si era chiesta se l’aveva “ridestato”.

Eppure, perfino quella domanda poteva incidere più in profondità di quanto lui poteva immaginarsi. Lui stava riconoscendo in se stesso una sensazione, sì, di “non destato”: una persona che aveva schivato la vita, non trovandosi mai a proprio agio con qualunque lavoro, o qualunque donna salvo Marcia, ricordò in fretta. Aveva sempre provato, in realtà, quella sensazione d’una esistenza enormemente più ricca e più viva, appena più in là della sua portata.

Se era per questo, la maggior parte della gente non viveva forse la propria vita senza mai veramente “destarsi”, apatici come vermi, meccanici come insetti, i cui pensieri venivano alimentati a cucchiaiate dai rotocalchi e dalla radio? Non avrebbero potuto dei robot recitare altrettanto bene quella tanto sopravvalutata faccenda del vivere?

Certamente i fatti di quel pomeriggio erano stati d’un genere tale da turbare la sua immaginazione in maniera del tutto particolare. Così sui due piedi non riusciva a pensare a una sola soluzione soddisfacente per le azioni della ragazza spaventata: follia, nevrosi, oppure qualche pericolo concreto? O forse soltanto uno scherzo?

No, quella bionda strabica aveva avuto un ruolo innegabile, e il suo atteggiamento nei confronti della ragazza spaventata lasciava intendere una morbosa tirannia spirituale. Carr s’imporporò ricordando lo schiaffo.

E poi quegli incontri con l’uomo basso e grasso e con l’ometto dalla pelle scura erano arrivati così a puntino… l’ultimo, poi, proprio come predetto. Carr provava l’inquietante convinzione di essersi in qualche modo imbattuto in una vasta ragnatela d’ombre.

Aveva raggiunto il ponte della Michigan Avenue. All’imbrunire il Chicago River era uno scuro pavimento opaco. Gli parve quasi di toccare con mano la sottile spolveratura di nebbia che rivestiva le increspature dell’acqua. Notò una vecchia chiatta nera a motore che si stava avvicinando al ponte. Un piccolo scafo dall’aspetto goffo, con una cabina lunga e bassa e una tozza ciminiera.

Ma fu l’uomo sulla chiatta a colpirlo di più. La sua statura era enorme, la corporatura massiccia. Il suo volto aveva una mandibola prominente, enorme, aveva occhi da lottatore profondamente infossati e sopra di essi s’innalzava un’alta fronte bianca. I suoi indumenti erano neri, di tela grezza, eppure Carr immaginò che intorno a lui aleggiasse un’aura di potenza intellettuale. Nella mano destra, a mo’ di picca, reggeva un rampino dall’aspetto cattivo, in cima a una grossa asta lunga quasi il doppio di lui.

Quando la chiatta fu più vicina al ponte, l’uomo gigantesco alzò lentamente la testa e puntò su Carr uno sguardo così intenso, così penetrante e scrutatore, che Carr quasi si ritrasse di scatto dalla ringhiera.

L’uomo continuò a fissare Carr, il suo volto era un ovale bianco quasi quadrato sullo sfondo nero degli indumenti, mentre la chiatta proseguiva il suo percorso sotto il ponte.

Durante tutta la strada fino a casa, sopra il grande ponte ventoso, fra i luccicanti piloni bianchi e giallo-grigi del Wriley Building e della Tribune Tower, e poi attraverso le strade buie e allegre del vicino North Side, e infine salendo quegli stessi gradini della vecchia casa di arenaria nella quale aveva una stanza in affitto, Carr continuò nel suo sforzo di afferrare i contorni della ragnatela nella quale sembrava essere rimasto impigliato. Non ebbe alcun successo, e in quanto al ragno non ce n’era neppure l’ombra. Quale possibile legame poteva esserci tra una ragazza spaventata, un balordo ispettore al magnetismo, uno sconosciuto che si eclissava deliberatamente alla vostra vista e forse anche un battelliere dalle dimensioni gargantuesche?

L’atrio era immerso nella penombra e sapeva di stantio. Carr cercò a tastoni la sua cassetta delle lettere, ma non c’era posta. Salì in fretta le scale dalla balaustra decorata, una reliquia dei giorni opulenti del lontano 1890. Su per la scala l’oscurità s’infittiva. Una finestrella di vetro colorato, dominato dal rosso e dal viola, forniva l’unico vago bagliore.

Proprio mentre arrivava alla curva della scala, parve a Carr di vedere se stesso venirgli incontro nella fitta penombra.

L’illusione durò un attimo. Poi riconobbe nella figura il suo riflesso nel grande specchio offuscato, rigato dal tempo e chiazzato, che occupava la maggior parte della parete sul pianerottolo. Gli era già capitato altre volte.

Ma rimase là ugualmente, immobile a fissare quell’immagine avvolta nel buio: un uomo alto, di corporatura esile, i capelli biondi, i lineamenti minuti e regolari. Un’esperienza banale aveva assunto un nuovo significato causando una cristallizzazione delle emozioni e del pensiero.

Là c’era… Carr Mackay. E tutt’intorno a lui si stendeva un universo sconosciuto. E cosa significava o contava Carr Mackay? Qual era l’autentico significato della routine, di quel ritmo tenebroso che lo sospingeva sempre più in fretta attraverso la vita, a gran velocità verso una tomba che si trovava da qualche parte? Aveva un qualche significato (vale a dire, qualche significato che un uomo potesse accettare o sopportare) specialmente quando qualunque interruzione del ritmo, come gli eventi di quel pomeriggio, poteva far sembrare tutto così morto e privo di scopo, un’interminabile marcia e contromarcia di marionette?

Carr oltrepassò il riflesso alla cieca, di corsa, proseguendo su per le scale.