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Nel corridoio di sopra faceva ancora più buio. La lampadina si era bruciata e non era stata sostituita. Carr avanzò lungo il corridoio a tentoni e aprì la porta della sua stanza.

Era un locale ampio e comodo, dall’alto soffitto, con il vecchio, sontuoso rivestimento di legno che innumerevoli strati di pittura da pochi soldi non erano riusciti a offuscare del tutto; c’era un vecchio letto d’ottone con aste e pomelli, quasi una fantasiosa voliera. Cominciando subito a cambiarsi, Carr cercò di far sì che quel luogo lo ghermisse e lo cullasse con la suggestione di cose familiari e della sua vita con Marcia e i suoi, facendogli dimenticare il Carr Mackay smarrito laggiù nello specchio. In un angolo c’erano le sue mazze da golf, i libri sulla vela, l’astuccio con gettoni e mazzi di carte da poker sulla mensola del caminetto, la scatola dei gemelli per la camicia col programma del teatro accanto, e la morbida spazzola di tipo militare per capelli che Marcia gli aveva regalato. Ma quella sera tutto questo gli parve un assortimento di oggetti arbitrari e inutili come i reperti d’una antica tomba egizia, oggetti posti là dentro per accompagnare il loro proprietario nel lungo e faticoso viaggio verso l’oltretomba.

Erano ancor meno vivi dei due polverosi libri d’argomento metafisico che aveva comperato quand’era ancora studente all’università e che non era mai arrivato a leggere per più d’un quarto, oppure delle piccole maschere fatte di cartone e di gesso raffiguranti la commedia e la tragedia, consegnate quindici anni prima a tutti i membri della filodrammatica dell’università, o della scatola degli scacchi da tempo mai più aperta, o della fiaschetta d’argento ormai scurita.

Carr appese il suo vestito marrone a un appendiabiti, lo mise nell’armadio e abbassò istintivamente la mano per prendere il vestito blu ancora nell’involto della lavanderia a secco.

Là, nella penombra, gli parve di scorgere un’altra volta i viso della ragazza spaventata. La mano che reggeva l’appendiabiti appesantito rimase sospesa a metà strada all’asta dell’armadio. Riusciva a distinguere gli occhi seri, dall’espressione d’una preda braccata, i lineamenti fini, le labbra nervose.

Lei aveva la chiave, la parola d’ordine che dava accesso a quel mondo nascosto. Lei conosceva la risposta alla domanda che quel Mackay avvoltolato nel buio aveva posto.

Quelle labbra immaginate si dischiusero nervose, come se stessero per parlare. Esalando rabbiosamente il fiato che aveva trattenuto Carr balzò indietro con uno scatto. Cosa mai gli era venuto in mente? Soltanto nei libri più caramellosi e immaturi gli uomini di 39 anni s’innamoravano di studentesse universitarie vivaci, misteriose e umorali. Oppure si lasciavano invischiare in affascinanti e sinistri intrighi che esistevano soltanto nei cervelli esaltati di ragazze come quelle.

S’infilò l’abito blu, poi cominciò a trasferire nelle sue tasche ciò che si trovava in quello marrone. Ritrovò il biglietto, scritto a matita, che la ragazza spaventata aveva scribacchiato. Doveva esserselo cacciato in tasca quando l’uomo basso e grasso aveva cominciato a comportarsi stranamente. Lo girò e vide che non aveva letto tutto.

Se volete incontrarmi di nuovo, malgrado i pericoli, sarò accanto alla coda del leone vicino alle cinque sorelle, stasera alle otto.

Le labbra gli si contrassero in un sorriso forzato e incredulo, poi lui proruppe in una risata. Questo liquidava la faccenda! Se non dimostrava che quella ragazza aveva succhiato il latte dal Prigioniero di Zenda ed era stata svezzata col Graustark, allora avrebbe proprio voluto sapere come… La coda del leone e le cinque sorelle! Era probabile che portasse il rubino del Rajà in un sacchetto legato al collo e scrivesse lettere d’amore con una penna di cigno nero. In breve, adorava una mescolanza di melodramma e d’automistificazione che era passata di moda con le crinoline. Qui stava la chiave del suo comportamento grottesco, e quella ragazza poteva smetterla subito di perseguitare la sua immaginazione.

Non c’era più nessun dubbio che Marcia fosse la donna giusta per lui, anche se a volte si mostrava un po’ troppo smaniosa di cambiare la sua vita. Era capace, attraente, matura, appagata. Dirigente d’una importante casa editrice. Competente sia negli affari sia nel piacere. Il suo tipo. Appassionata di vela e di golf come lui, astuta quando giocava a poker, frequentava i teatri e le feste giuste, conosceva persone importanti. Lui e Marcia avrebbero ben presto raggiunto un soddisfacente accordo reciproco, forse si sarebbero perfino sposati. Quale concorrenza poteva mai rappresentare quella ragazza così chiaramente disadattata?

“Ma” emerse una voce silenziosa dalla sua coscienza “là nell’ufficio non avevi forse deciso che il legame fra te e quella ragazza spaventata non aveva niente a che fare con l’amore? Non stai forse cercando di evitare il problema, trasferendolo su un piano emotivo del tutto diverso?”

Corse in bagno sfregandosi il mento. A Marcia piaceva che lui fosse ben curato, e la barba gli pareva un po’ troppo lunga. Si guardò allo specchio per aver conferma del suo sospetto, e ancora una volta vide un diverso Carr Mackay.

Quello laggiù sulle scale gli era parso smarrito. Questo, inquadrato in quella cornice bianca da sala chirurgica, pareva intrappolato. Un piccolo Mackay legnoso e ordinato, che procedeva arrancando attraverso la vita senza chiedere cosa significassero i differenti cartelli indicatori, che ghermiva sempre i piaceri indesiderati, che continuava a vendere a se stesso questa, quella e quell’altra cosa: il cliente Jekyll e il venditore Hyde. Uno stupido Mackay che si atteneva sempre alle consuetudini stabilite, un manichino.

Sì, avrebbe dovuto radersi. Ma, da come si sentiva, quanto prima lui e Marcia avessero cominciato a bere tanto meglio sarebbe stato. Per questa volta si sarebbe tenuta la barba lunga.

Mentre prendeva questa decisione, divenne conscio d’un senso di colpa del tutto sproporzionato.

Ma chiunque, una volta o l’altra, finiva sempre per scoprirsi ad attribuire un’importanza grottesca a qualche azione banale. Come quella di mettere o non mettere un piede su una crepa nel marciapiede.

Probabilmente aveva letto troppi annunci nel Five o’Clock Shadow.

Diménticatene.

Si affrettò a infilarsi il resto degli indumenti, si avviò verso la porta, si fermò accanto alla scrivania, aprì il cassetto in alto, fissò per un attimo le tre bottigliette piatte di whisky annidate nel suo interno. Poi si affrettò a chiudere il cassetto e uscì in corridoio! Scese le scale distogliendo gli occhi dallo specchio, attraversò rapidamente l’atrio sempre in penombra e sbucò in strada.

Era un sollievo sapere che tra pochi minuti sarebbe stato con Marcia. Ma otto isolati bui sono otto isolati bui, e se si fanno a piedi ci vuole un po’ di tempo, non importa quanto sia rapido il vostro passo. Tempo sufficiente a far perdere ogni vostra determinazione e sicurezza. Tempo sufficiente perché ciò che è consueto e normale diventi insolito e raggelante. Tempo sufficiente a far perdere ogni contorno preciso agli schemi in base ai quali siete finora vissuti. Tempo, sì, per allontanarvi dalle scritte al neon e dalle luci, dalla musica e dalle voci della televisione, cominciando a riflettere sull’universo e rendendosi conto che è un luogo di mistificazioni e di morte, senza più sentimenti di quanti possa averne un tritacarne per la vita che cola attraverso di esso.

Gli edifici su entrambi i lati divennero le mura d’una pista nera, e gli occasionali passanti, automi avvolti nell’ombra.

Carr divenne conscio del tenebroso ritmo dell’esistenza; come di qualcosa d’implacabile che torchiava i nervi e lo trascinava come i fili d’una marionetta, cercando di riavvolgerlo in qualche altro schema dal quale si era staccato. Una mescolanza di rumori e di passi affrettati, del ruggire dei motori, di stridii d’auto, di eliche rombanti, della risacca, della rotazione dei pianeti, di stelle sfreccianti e di qualcos’altro ancora.