Выбрать главу

Soltanto un umore, si disse, ma un umore molto intenso. Ma questo non voleva già dire abbastanza? L’essenza d’un umore non era forse l’incapacità di qualcuno a combatterlo? E più si era intelligenti, più si era pronti a vedere attraverso tutti gli imbrogli e le razionalizzazioni, per ritornare alla gelida, aspra, insondabile realtà dell’umore stesso.

Trovarsi con Marcia l’avrebbe rimesso in sesto, si disse, mentre le buie facciate gli strisciavano accanto una dopo l’altra scomparendo alle sue spalle. Per lo meno, lei non avrebbe mai potuto diventare un’estranea. C’era troppo fra loro due. Una volta con lei, lui sarebbe tornato di colpo alla normalità.

Ma si era dimenticato del suo viso. Era sempre facile dimenticarsi momentaneamente d’un viso, non importa quanto familiare fosse. Come un nome, o un luogo dove avete cacciato qualcosa per tenerlo al sicuro. E più cercate di ricordarvelo, più i dettagli precisi vi eludono.

Carr ci provò. Cento volti balenarono e si dissolsero nella sua mente, qualcuno richiamava ossessivamente alla memoria Marcia, qualcuno era grottescamente dissimile. Ragazze che aveva conosciuto all’università, candidati al collocamento di mesi addietro ai quali non aveva più pensato da allora, fotografie di riviste, volti intravisti per un attimo in una strada affollata, altri senza alcuna etichetta d’origine.

La luce d’una finestra al pianterreno filtrò sul volto d’una ragazza dall’impermeabile azzurro scampanato proprio nell’istante in cui gli passò accanto. Il cuore gli batté forte mentre proseguiva. Era stato quasi sul punto di afferrarla e di esclamare: “Marcia!” E non era per niente un tipo alla Marcia…

Carr accelerò il passo. Il grande complesso di appartamenti in cui Marcia viveva comparve un po’ per volta alla sua vista, divenne minacciosamente alto.

Carr si affrettò lungo il vialetto piastrellato fiancheggiato da arbusti. L’atrio era una lunga sala inutile, arredata in quello che avrebbe voluto essere uno stile spagnolo, con parecchio legno scolpito e cuoio rosso. Carr si fermò al banco. L’impiegato era in fondo al cubicolo, intento a parlare con qualcuno al telefono. Carr aspettò, ma l’impiegato pareva deciso a prolungare la conversazione. Carr si schiarì la gola. L’impiegato sbadigliò e fletté languidamente il braccio con cui reggeva il ricevitore, come per richiamare l’attenzione sull’anello col sigillo e i gemelli d’oro.

L’ascensore automatico era in attesa, lo sportello si aprì sulla cabina buia. Carr non si attardò ulteriormente. Entrò e premette il pulsante del settimo piano. Non accadde nulla. Dopo aver premuto altre due volte il pulsante, Carr decise che avrebbe fatto meglio a informare l’impiegato che l’ascensore era guasto.

Ma proprio allora lo sportello si chiuse, la luce si accese e la cabina cominciò a salire. Era una cabina molto piccola. Pannelli vermigli, infissi d’ottone, un tappeto d’un rosso più scuro. Una targhetta diceva che poteva trasportare fino a 680 chilogrammi. Il vermiglio era più scuro là dove i passeggeri si erano appoggiati e i punti consumati mostravano dov’erano stati appoggiati i pacchi sulla ringhiera d’ottone. Pacchi o altre cose cacciate là dentro a forza.

La cabina si arrestò al settimo piano. La porta si aprì. Un uomo grasso che indossava un pesante cappotto tolse il dito dal pulsante esterno ed entrò senza aspettare. Carr uscì schiacciandosi contro il suo pancione, si girò non appena ebbe superato il portello e sbottò: — Scusi tanto! — Ma lo sportello si stava già chiudendo, e da quello zotico grassone non gli giunse alcuna risposta.

Carr s’incamminò lungo il corridoio ricoperto da un tappeto rosso. Giunto davanti alla porta di Marcia esitò. Avrebbe potuto non piacerle che lui entrasse in quel modo senza farsi annunciare. Ma non poteva starsene eternamente ad aspettare i comodi di quell’impiegato sonnolento.

Sentì, lontano alle sue spalle, che la cabina dell’ascensore si fermava al pianterreno.

E notò anche che la porta dell’appartamento, davanti a lui, era socchiusa.

La spinse, aprendola di qualche altro centimetro.

— Marcia! — chiamò. — Marcia… — La voce gli uscì rauca.

Entrò nel soggiorno. La lampada a stelo con l’abat-jour ricamata, mostrava pareti d’un grigio perla opaco, uno scaffale per i libri, un divano azzurro superimbottito con un cappotto e una sciarpa di seta gialla buttati sopra di esso, e un esile, arricciolato fil di fumo che esalava da una sigaretta, chissà da dove.

Marcia non sarebbe andata via così, lasciando la porta d’ingresso socchiusa.

La porta della camera da letto era aperta. Carr la raggiunse, i suoi passi non facevano nessun rumore sul folto tappeto. Si fermò.

Marcia era seduta su uno sgabello imbottito davanti a un grande tavolo da toilette. Su una sedia, al suo fianco, era disteso un abito di seta grigia. Marcia non indossava assolutamente niente. Una sigaretta schiacciata esalava le sue volute di fumo in un minuscolo portacenere d’argento. Si stava dando la lacca alle unghie.

Questo era tutto. Ma a Carr pareva d’essere entrato per sbaglio in una di quelle vetrine d’un grande magazzino allestita realisticamente. Quasi si aspettava di vedere i volti dei passanti sbirciare attraverso l’ampia finestra, a sette piani da terra.

Una moderna stanza da letto in grigio fumo e rosa. Un manichino seduto davanti alla toilette, in atto di truccarsi. Forse anche un cartello, con una scritta a svolazzi: “Mettete in evidenza i vostri Rosa con il Grigio!”.

Rimase lì come uno stupido, a un passo dalla porta, senza dire niente, senza fare un solo movimento.

Nello specchio, gli occhi di lei parvero incontrare i suoi. Non poteva credere che lei fosse inconsapevole della sua presenza. Non aveva mai saputo che potesse essere così sfacciatamente immodesta.

Marcia continuò a darsi la lacca alle unghie.

Poteva essere arrabbiata con lui perché era salito senza preannunciarsi con una telefonata. Ma non era da Marcia mostrare in quello strano modo il suo dispiacere… e se stessa.

Oppure sì? Stava forse cercando deliberatamente di stuzzicarlo?

Carr fissò il suo volto nello specchio. Era proprio quello che aveva dimenticato. C’erano quelle labbra ferme, la fronte fresca e liscia incorniciata dai capelli rossi, le fugaci caratteristiche della sua espressione: non quelle a cui era più abituato, ma senz’altro le sue.

Eppure quel riconoscimento non comportava quella sensazione di assoluta certezza che avrebbe dovuto. Mancava qualcosa: la grande sensazione della realtà dietro quel viso, ciò che avrebbe dovuto animarla.

Marcia terminò di laccarsi le unghie e protese le dita in fuori per farle asciugare.

Un’acuta ondata d’inquietudine percorse Carr. Quello era un nonsenso, si disse. Avrebbe dovuto muoversi o parlare.

Marcia si sedette ancora più diritta, spingendo all’indietro le spalle. Un pallido sorriso di ammirazione e di autocompiacimento le aleggiò sulle labbra. Con i polpastrelli delle dita, sempre facendo attenzione alla lacca, si accarezzò delicatamente i seni sollevandoli verso l’alto in un atto torpido e sognante.

I polpastrelli si chiusero sulle areole e pizzicarono i piccoli capezzoli. Gli parve di vederli irrigidirsi.

Si sentì irrigidire anche lui.

Aveva la gola arida e le gambe intorpidite. E nel fissare Marcia, così nuda e invitante, così erotica, fece istintivamente un passo avanti. Lei non aveva nessun diritto di tentarlo così…

E poi, tutt’a un tratto, sentì di nuovo la terribile sensazione che aveva avuto quel pomeriggio. Lo fece arrestare di botto.

E se Marcia non fosse stata veramente viva, non consapevoimente viva, ma avesse fatto parte anche lei di una danza di atomi senza cervello, uno spettacolo meccanico che si estendeva al mondo intero salvo lui stesso? Arrivando con qualche minuto d’anticipo, saltando soltanto l’operazione di radersi, lui aveva spezzato il ritmo di quel meccanismo. Era per questo che l’impiegato non gli aveva parlato, era per questo che l’ascensore non aveva funzionato quando lui aveva premuto il pulsante la prima volta, era per questo che il grassone l’aveva ignorato, era per questo che Marcia non l’aveva salutato. Nello spettacolo meccanico, non era ancora il momento di quelle brevi scene recitate.