Anne Rice
Scelti dalle tenebre
Questo libro è dedicato con affetto a Stan Rice, Karen O’ Brien, e Allen Daviou
In centro un sabato sera del ventesimo secolo
1984
Sono il vampiro Lestat. Sono immortale. Più o meno. La luce del sole, il calore continuativo d’un fuoco intenso… ecco, potrebbero annientarmi. O forse no.
Sono alto un metro e ottantasei, una statura piuttosto ragguardevole intorno al 1780, quando ero un giovane mortale. Adesso non sono tanto malaccio. Ho i capelli biondi molto folti che arrivano fin quasi alle spalle, e piuttosto ricci, che sembrano bianchi sotto la luce fluorescente. Ho gli occhi grigi, ma assorbono facilmente l’azzurro e il viola dalle superfici che ho intorno. Ho un naso piuttosto corto e sottile, una bocca ben modellata anche se un po’ troppo grande per il mio volto. Può sembrare maligna o estremamente generosa, la mia bocca. E appare sempre sensuale. Ma i sentimenti e le reazioni si rispecchiano davvero sempre in tutta la mia espressione. Il mio viso è molto animato.
La mia natura di vampiro si rivela in una carnagione bianca e lucida, che è necessario rendere opaca con la cipria davanti alle telecamere e agli obiettivi in genere.
E se ho sete di sangue divento orrendo… con la pelle incartapecorita e le vene che spiccano come corde sulle ossa. Ma ormai non permetto più che succeda. E l’unico indizio del fatto che non sono umano è costituito dalle mie unghie. È così per tutti i vampiri. Le nostre unghie sembrano di vetro. E certuni se ne accorgono anche quando non notano niente altro.
Ora sono ciò che l’America chiama una superstar del rock. Il mio primo album ha venduto quattro milioni di copie. Sto per andare a San Francisco per la prima tappa di una tournée nazionale di concerti che porterà il mio complesso dalla costa del Pacifico a quella dell’Atlantico. La MTV, la televisione rock via cavo, da due settimane trasmette notte e giorno i miei videoclip, che vengono mandati in onda anche in Inghilterra nel programma Top of the Pops, e sul continente, e con ogni probabilità anche in alcune parti dell’Asia e in Giappone. Anche le videocassette dell’intera serie dei clip si vendono in tutto il mondo.
Sono perfino autore di un’autobiografia che è stata pubblicata la settimana scorsa.
A proposito del mio inglese, la lingua che uso nell’autobiografia, l’ho imparato grazie a un battelliere che scendeva il Mississippi fino a New Orleans circa duecento anni fa. Ho imparato di più, in seguito, dagli scrittori di lingua inglese, da Shakespeare a Mark Twain e a H. Rider Haggard, che ho letto con il passare dei decenni. L’ultima trasfusione l’ho ricevuta dai racconti polizieschi dell’inizio del ventesimo secolo, pubblicati dalla rivista Black Mask. Le avventure di Sam, Spade, l’investigatore creato da Dashiell Hammett, sono state le ultime che ho letto prima di darmi, per così dire, alla latitanza.
E questo accadde a New Orleans nel 1929.
Quando scrivo tendo a usare un vocabolario che per me sarebbe stato naturale nel secolo decimottavo, in frasi ispirate dagli autori che ho letto. Ma, nonostante il mio accento francese, il mio modo di parlare è una via di mezzo tra la lingua del battelliere e quella dell’investigatore Sam Spade. Perciò spero che mi perdonerete se il mio stile è incoerente. E così ogni tanto rovino l’atmosfera di una scena settecentesca.
L’anno scorso sono riemerso nel ventesimo secolo.
A portarmi qui sono state due cose.
Innanzi tutto le informazioni ricevute dalle voci amplificate che avevano incominciato a diffondersi rumorosamente nell’aria più o meno all’epoca in cui mi ero steso a dormire.
Mi riferisco alle voci delle radio, ovviamente, e dei fonografi e dei televisori apparsi più tardi. Sentivo le radio delle macchine che passavano per le strade del vecchio Garden District, vicino al posto dove mi trovavo. Sentivo i fonografi e i televisori accesi nelle case intorno alla mia.
Ora, quando un vampiro si dà alla latitanza, come diciamo noi, quando smette di bere sangue e resta sepolto nella terra, presto diventa troppo debole per risuscitare, e piomba in uno stato onirico.
In quello stato assorbivo torbidamente le voci, le circondavo di immagini nate per reazione, come fanno nel sonno i mortali. Ma a un certo punto, negli ultimi cinquantacinque anni, incominciai a «ricordare» ciò che ascoltavo, a seguire i programmi d’evasione, ad ascoltare i notiziari e le parole e le musiche delle canzoni.
E a poco a poco incominciai a comprendere la portata dei cambiamenti subiti dal mondo. Incominciai ad attendere informazioni specifiche su guerre e invenzioni e su certi nuovi modelli del linguaggio.
Poi cominciai ad acquisire coscienza di me. Mi accorsi che non sognavo più. Pensavo a ciò che avevo udito. Ero sveglio. Giacevo sottoterra ed ero assetato di sangue vivo. Incominciai a dirmi che forse tutte le mie vecchie ferite si erano rimarginate. Che forse avevo ritrovato la forza. Che forse quella forza s’era addirittura accresciuta, come sarebbe accaduto con l’andar del tempo se non fossi mai stato ferito. E desideravo accertarlo.
Cominciai a pensare incessantemente di bere sangue umano.
La seconda cosa che mi ridestò completamente, anzi il fattore scatenante, fu la presenza vicino a me d’un complesso di giovani cantanti rock che si chiamava Satan’s Night Out.
Si erano stabiliti in una casa nella Sesta Strada, a meno di un isolato dal luogo dove dormivo sotto casa mia in Prytania, vicino al Cimitero Lafayette, e avevano cominciato a provare la loro musica rock in soffitta, intorno al 1984.
Sentivo il piagnucolio delle chitarre elettriche e il loro canto convulso. Valeva quanto le canzoni che ascoltavo alla radio e allo stereo, anzi era più melodico dì tanti altri. Era carico di sentimento nonostante il martellare della sezione ritmica. La tastiera elettrica sembrava un clavicembalo.
Coglievo immagini dai pensieri dei suonatori: mi dicevano che aspetto avevano e che cosa vedevano quando si guardavano tra loro o allo specchio. Erano giovani mortali snelli, scattanti e adorabili, androgini e un po’ selvaggi nel modo di vestire e nei movimenti: due maschi e una femmina.
Quando suonavano, soffocavano quasi tutte le altre voci amplificate che rintronavano intorno a me. Ma non mi dispiaceva.
Volevo alzarmi e unirmi al complesso Satan’s Night Out. Volevo cantare e ballare.
Ma non posso dire che all’inizio il mio desiderio fosse motivato da grandi pensieri. Era piuttosto un impulso, abbastanza forte per richiamarmi dalla sepoltura.
Rimasi incantato dal mondo della musica rock… i cantanti potevano urlare parlando del bene e del male, autoproclamarsi angeli e diavoli, e i mortali si alzavano e applaudivano. A volte sembravano incarnazioni della follia pura. Tuttavia era abbagliante, da un punto di vista tecnologico, la complessità della loro performance: era barbara e cerebrale in un modo che, pensavo, il mondo del passato non aveva mai visto.
Naturalmente quel delirio era una metafora. Nessuno di loro credeva agli angeli e ai diavoli, anche se ne assumevano la parte alla perfezione. Solo gli interpreti dell’antica commedia italiana sapevano essere altrettanto sconvolgenti e inventivi e lubrichi.
Eppure erano incredibilmente nuovi gli estremi ai quali portavano la brutalità e la sfida, e il modo in cui venivano abbracciati dal mondo, tanto dai più ricchi come dai più poveri.
E poi, c’era qualcosa di vampiresco nella musica rock. Doveva apparire sovrannaturale anche a coloro che al sovrannaturale non credevano. Alludo al fatto che l’elettricità poteva protrarre una nota all’infinito, al modo in cui era possibile sovrapporre armonia ad armonia fino a quando ti sentivi dissolvere nel suono. Era eloquente, quella musica. Il mondo non l’aveva mai posseduta in nessuna forma.
Sì, volevo avvicinarmi a loro. Volevo suonarla anch’io, e magari rendere famoso il piccolo complesso sconosciuto Satan’s Night Out. Ero pronto a riemergere.