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Mia madre annuì con la stessa aria di comprensione, come se una luce le balenasse dietro agli occhi.

«E sulla montagna, madre, mentre combattevo contro i lupi… è stato un po’ così.»

«Soltanto un poco?» chiese.

Annuii.

«Mi sentivo diverso da me stesso mentre uccidevo i lupi. E ora non so chi c’è qui con te… se tuo figlio Lestat oppure l’altro, l’uccisore.»

Mia madre rimase in silenzio a lungo. «No», disse alla fine. «Sei stato tu a uccidere i lupi. Sei il cacciatore, il guerriero. Sei più forte di tutti gli altri che ci sono qui, ed è la tua tragedia.»

Scossi la testa. Era vero, ma non aveva importanza. Non bastava a spiegare un’infelicità tanto grande. Ma a che serviva dirlo?

Per un momento mia madre distolse lo sguardo, poi tornò a volgerlo su di me.

«Ma tu sei molte cose», disse. «Non una cosa sola. Sei l’uccisore e l’uomo. E non cedere all’uccisore che è in te soltanto perché li odi. Non devi addossarti il peso dell’assassinio o della follia per liberarti. Sicuramente dovranno esservi altri modi.»

Quelle ultime due frasi mi colpirono con forza. Mia madre era arrivata al cuore delle cose, e le implicazioni di ciò mi abbagliavano.

Avevo sempre intuito che non avrei potuto essere un buon umano e combatterli. Essere buono significava farmi sconfiggere da loro. A meno che, naturalmente, trovassi un’idea del bene che fosse più interessante.

Restammo in silenzio per qualche istante. Era un’intimità eccezionale persino per noi. Mia madre guardava il fuoco, e si assestava i capelli folti avvolti intorno alla nuca.

«Sai che cosa immagino?» disse, tornando a guardarmi. «Non tanto la loro uccisione, quanto un abbandono che Li ignori completamente. Immagino di bere tanto vino da ubriacarmi e spogliarmi e fare il bagno nuda nei ruscelli di montagna.»

Per poco non risi. Ma era un divertimento sublime. La guardai, incerto: non sapevo se avevo capito bene. Mia madre aveva pronunciato quelle parole e non aveva ancora finito.

«Poi immagino di andare nel villaggio», disse, «e di entrare nella locanda e di portarmi a letto tutti quegli uomini che trovo… uomini rozzi, uomini grandi e grossi, vecchi, ragazzi. Immagino di stare lì a prenderli uno dopo l’altro, e di provare un magnifico senso di trionfo, uno sfogo assoluto senza pensare a ciò che può accadere a tuo padre e ai tuoi fratelli, senza curarmi se sono vivi o morti. In quel momento sono esclusivamente me stessa. Non appartengo a nessuno.»

Ero troppo sorpreso e scandalizzato per parlare. Ma era terribilmente spassoso anche questo. Quando pensavo a mio padre e ai miei fratelli e ai pomposi bottegai del villaggio e al modo in cui avrebbero reagito a una cosa del genere, mi divertivo un mondo.

Se non risi, fu con ogni probabilità perché l’immagine di mia madre nuda mi fece pensare che non dovevo farlo. Ma non riuscii a restare in silenzio; ridacchiai e mia madre annuì, con un accenno di sorriso. Inarcò le sopracciglia come per dire: «Noi due ci comprendiamo».

Finalmente scoppiai in una risata scrosciante. Battei il pugno sul ginocchio e la fronte contro la testata del letto. Anche mia madre sembrava sul punto di ridere. Forse rideva in quel suo modo silenzioso.

Fu un momento bizzarro. Un senso quasi brutale di lei come essere umano, distaccato da tutto ciò che la circondava. Ci comprendevamo e tutto il mio risentimento verso di lei non aveva molta importanza.

Mia madre si tolse lo spillone dai capelli e lasciò che le ricadessero sciolti sulle spalle.

Poi restammo in silenzio, immobili, per circa un’ora. Niente più risate o parole; soltanto il fuoco che divampava, e mia madre vicina a me.

S’era voltata per guardare il fuoco. Il suo profilo, la delicatezza del naso e delle labbra erano ammirevoli. Poi tornò a girarsi verso di me e con la stessa voce ferma, priva di eccessive emozioni, disse:

«Non me ne andrò mai di qui. Sto morendo.»

Rimasi stordito. Il piccolo shock di poco prima era niente, al confronto.

«Vivrò ancora questa primavera», continuò. «E forse anche l’estate. Ma non sopravvivrò a un altro inverno. Lo so. Il dolore ai polmoni è troppo forte.»

Mi lasciai sfuggire un gemito d’angoscia. Mi tesi verso di lei, credo, e dissi: «Madre!»

«Non parlare più», disse lei.

Credo che detestasse essere chiamata madre; ma non ero riuscito a trattenermi.

«Volevo solo parlare a un’altra anima», disse. «Sentirlo mentre lo dicevo ad alta voce. Mi fa orrore. Ho paura.»

Avrei voluto prenderle le mani, ma sapevo che non l’avrebbe permesso. Detestava farsi toccare. Non abbracciava mai nessuno. Perciò ci limitammo a guardarci. I miei occhi si riempirono di lacrime mentre la guardavo.

Mi accarezzò la mano.

«Non pensarci molto», disse. «Io non ci penso. Solo ogni tanto. Ma devi prepararti a vivere senza di me, quando verrà il momento. Potrebbe essere più difficile di quanto immagini.»

Cercai di dire qualcosa, ma non trovai le parole.

Mi lasciò com’era venuta: in silenzio.

E, sebbene non avesse detto nulla dei miei indumenti e della mia barba e del mio aspetto orribile, mi mandò i servitori con abiti puliti e il rasoio e l’acqua calda. In silenzio, lasciai che si prendessero cura di me.

3.

Incominciavo a sentirmi un po’ più forte. Smisi di pensare a ciò che era accaduto con i lupi e pensai a mia madre.

Pensavo alle parole «Mi fa orrore», e non sapevo come interpretarle, ma sembravano vere. Mi sarei sentito così anch’io, se mi fossi avviato lentamente alla morte. Sarebbe stato meglio finire sulla montagna, ucciso dai lupi.

Ma c’era qualcosa di più. Mia madre era sempre stata silenziosamente infelice. Odiava l’inerzia e l’apatia della nostra vita, come le odiavo io. E adesso, dopo otto figli, tre vivi e cinque morti, stava morendo anche lei. Era la fine.

Decisi di alzarmi, se questo poteva servire a farla sentire meglio, ma quando tentai non ci riuscii. Il pensiero che mia madre stesse per morire era insopportabile. Camminavo avanti e indietro nella mia stanza, mangiavo i pasti che mi portavano ma non andavo da lei.

Alla fine del mese arrivarono alcuni visitatori che mi tirarono fuori.

Mia madre venne a dirmi che dovevo ricevere i mercanti del villaggio. Volevano ringraziarmi perché avevo ucciso i lupi.

«Oh, al diavolo», risposi.

«No, devi scendere», disse lei. «Hanno doni per te. Fa’ il tuo dovere.»

Detestavo tutto quanto.

Scesi nella sala e trovai i bottegai; li conoscevo bene, e tutti s’erano vestiti in gran pompa per l’occasione.

Ma tra loro c’era un giovane che non riconobbi immediatamente.

Aveva all’incirca la mia età ed era molto alto. Quando i nostri occhi s’incontrarono, ricordai chi era: Nicolas de Lenfent, il figlio maggiore del mercante di stoffe, che era stato a studiare a Parigi.

Adesso era uno splendore.

Aveva una splendida giacca dì broccato rosa e oro, scarpe con i tacchi dorati, e una quantità di pizzi italiani al collo. Soltanto i capelli erano gli stessi di un tempo, scuri e ricciuti, e gli davano una strana aria infantile sebbene fossero trattenuti sulla nuca da un bel nastro di seta.

La moda parigina… che passava con tutta la velocità possibile dalla locale stazione di posta.

E io ero lì a riceverlo con i miei indumenti di lana e gli stivali sciupati e i pizzi ingialliti che erano stati rammendati almeno diciassette volte.

Ci scambiammo un inchino, dato che apparentemente era il portavoce della cittadinanza; quindi tolse il modesto drappo di sargia nera che copriva un grande mantello di velluto rosso foderato di pelliccia. Un indumento magnifico. Gli brillavano gli occhi mentre mi guardava. Sembrava che stesse contemplando un sovrano.