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«Un teatro parigino veramente grande…» dissi io. «Descrivetemelo… com’è?»

Rimanemmo in quella stanza, credo, per quattro ore consecutive, e non facemmo altro che bere e parlare.

Nicolas disegnò le piante dei teatri sul piano del tavolo con l’indice bagnato, mi parlò delle rappresentazioni cui aveva assistito, degli attori famosi, delle casette sui boulevard. Poi cominciò a descrivere tutta Parigi e mise da parte il cinismo; la mia curiosità lo infiammava mentre parlava dell’Ile de la Cité, del Quartiere Latino, della Sorbona, del Louvre.

Passammo ad argomenti più astratti: il modo in cui i giornali riferivano gli avvenimenti, le discussioni dei suoi amici studenti nei caffè. Mi disse che molti erano inquieti e disamorati della monarchia: volevano un cambiamento di governo e non erano disposti a pazientare a lungo. Mi parlò dei filosofi, Diderot, Voltaire, Rousseau.

Non capivo tutto ciò che diceva. Ma con i suoi discorsi rapidi e a volte sarcastici mi diede un quadro meravigliosamente completo di ciò che stava accadendo.

Naturalmente non mi sorprese sentire che la gente istruita non credeva in Dio e s’interessava assai più alla scienza, che l’aristocrazia non era per nulla benvoluta, e così pure la Chiesa. Erano i tempi della ragione, non della superstizione, e più Nicolas parlava, più lo comprendevo.

Cominciò a riassumermi l’Encyclopédie, la grande compilazione della conoscenza umana pubblicata sotto la supervisione di Diderot. Poi parlò dei salotti che aveva frequentato, delle bevute, delle serate trascorse con le attrici; descrisse i balli pubblici al Palais Royal, dove Maria Antonietta compariva assieme alla gente comune.

«Vi dirò», concluse, «a parlarne sembra tutto assai meglio di quanto sia in realtà.»

«Non vi credo», dissi gentilmente. Non volevo che smettesse di parlare; volevo che continuasse all’infinito.

«È un’epoca laica, Monsieur», disse Nicolas mentre riempiva i bicchieri con un’altra bottiglia di vino. «Molto pericolosa.»

«Perché è pericolosa?» mormorai. «La fine della superstizione? Che cosa può esservi di meglio?»

«Avete parlato da vero esponente del secolo decimottavo, Monsieur», disse con un sorriso lievemente malinconico. «Ma nessuno apprezza più qualcosa. Conta soltanto la moda, ed è una moda anche l’ateismo.»

Avevo sempre avuto una mentalità laica, ma non per motivi filosofici. Nella mia famiglia nessuno credeva molto in Dio. Naturalmente affermavano di credere; e andavamo a messa. Ma era un dovere. La vera religione si era estinta da molto tempo nella nostra famiglia, come in quelle di migliaia di aristocratici, forse. Persino nel convento, non avevo creduto in Dio. Avevo creduto nei frati che mi stavano intorno.

Cercai di spiegarlo in un linguaggio semplice che non offendesse Nicolas, perché per la sua famiglia era diverso.

Persino suo padre, avido arraffatore di denaro (e lo ammiravo in segreto) era fervidamente religioso.

«Ma gli uomini possono vivere senza la fede?» chiese Nicolas in tono quasi triste. «Senza di essa, i giovani possono affrontare il mondo?»

Cominciavo a comprendere perché era così sarcastico e cinico. Aveva perduto la fede di recente, ed era amareggiato.

Ma, per quanto il suo sarcasmo fosse soffocante, irradiava una grande energia, una passione insopprimibile. E questo mi attirava verso di lui. Lo amavo, credo. Ancora due bicchieri di vino, e sarei stato capace di dire qualcosa di assolutamente ridicolo.

«Io ho sempre vissuto senza fede», dissi.

«Sì, lo so», mi rispose. «Ricordate la storia delle streghe? La volta che piangeste nel luogo delle streghe?»

«Piansi per le streghe?» Lo guardai per un momento senza comprendere. Ma le sue parole rievocavano qualcosa di doloroso e di umiliante. Troppi miei ricordi avevano quella caratteristica. E adesso dovevo ricordare di aver pianto per le streghe. «Non lo rammento», risposi.

«Eravamo bambini. E il prete ci insegnava le preghiere. Ci portò a vedere il posto dove anticamente bruciavano le streghe, i vecchi pali e il terreno annerito.»

«Ah, quel posto.» Rabbrividii. «Quel posto orribile, orribile.»

«Voi cominciaste a urlare e a piangere. Dovettero mandare qualcuno a chiamare la marchesa perché la vostra bambinaia non riusciva a calmarvi.»

«Ero un bambino difficile», dissi, cercando di non dare importanza alla cosa. Naturalmente, adesso ricordavo… avevo urlato, mi avevano portato a casa, avevo avuto incubi dei roghi. Qualcuno mi aveva bagnato la fronte e aveva detto: «Lestat, svegliati».

Ma da anni non pensavo a quell’episodio. Era il posto cui pensavo ogni volta che passavo nei dintorni… la selva di pali anneriti, le immagini degli uomini, delle donne e dei bambini bruciati vivi.

Nicolas mi stava studiando. «Quando vostra madre venne a prendervi, disse che era tutto frutto di ignoranza e crudeltà. Era indignata con il prete perché ci aveva raccontato quelle vecchie storie.»

Annuii.

L’orrore finale era stato sentire che erano morti tutti per nulla, quegli abitanti ormai dimenticati del nostro villaggio, che erano innocenti. «Vittime della superstizione», aveva detto mia madre. «Quelle non erano streghe.» Non era sorprendente che avessi urlato tanto.

«Ma mia madre», continuò Nicolas, «raccontava una storia diversa: le streghe erano in combutta con il diavolo, rovinavano i raccolti e, sotto l’aspetto di lupi, uccidevano le pecore e i bambini…»

«E il mondo non sarebbe migliore, se nessuno venisse più bruciato in nome di Dio?» chiesi. «Se non ci fosse più una fede in Dio che spinge gli uomini a fare simili cose ad altri uomini? Qual è il pericolo in un mondo laico, dove questi orrori non accadono?»

Nicolas si tese verso di me con un sorrisetto malizioso.

«I lupi non vi hanno ferito sulla montagna, non è vero?» chiese scherzosamente. «Non siete diventato un lupo mannaro, Monsieur, all’insaputa di tutti noi?» Accarezzò il bordo di pelliccia del mantello di velluto che portavo ancora sulle spalle. «Ricordate cosa diceva il buon prete? A quei tempi avevano bruciato parecchi lupi marinari. Erano un pericolo continuo.»

Risi.

«Se mi trasformerò in un lupo», risposi, «posso assicurarvi che non rimarrò qui a uccidere i bambini. Lascerò questo miserabile villaggio dove terrorizzano ancora i bimbi parlando dei roghi delle streghe. Mi metterò sulla strada per Parigi e non mi fermerò fino a che non ne vedrò i bastioni.»

«Ah, e giudicherete Parigi un posto miserabile», disse Nicolas, «dove spezzano le ossa dei ladri sulla ruota, per la soddisfazione del volgo, in Place de Grève.»

«No», dissi io. «Vedrò una città splendida dove grandi idee nascono nella mente della popolazione, idee che si diffondono e illuminano gli angoli più bui di questo mondo.»

«Ah, siete un sognatore!» esclamò. Ma era contento. Ed era bellissimo quando sorrideva.

«E conoscerò altri come voi», continuai, «che hanno pensieri nella mente e lingue svelte per esporli, e siederemo nei caffè e berremo insieme, e ci scontreremo con violenza a parole, e parleremo per il resto della nostra vita in uno stato di eccitazione divina.»

Nicolas si tese, mi passò il braccio intorno al collo e mi baciò. Per poco non rovesciammo la tavola. Eravamo beatamente ubriachi.

«Il mio signore, l’Uccisore di Lupi», bisbigliò.

Quando arrivò la terza bottiglia di vino cominciai a parlare della mia vita come non avevo mai fatto… di ciò che provavo quando mi addentravo ogni giorno tra i monti e andavo lontano per non vedere più le torri del castello di mio padre, lontano dalle terre coltivate, fin là dove la foresta sembrava quasi stregata.

Le parole cominciarono a uscirmi dalle labbra con la stessa facilità con cui erano uscite dalla bocca di Nicolas, e presto parlammo di mille cose che avevamo sentito nei nostri cuori, diverse varietà di segreta solitudine, e le parole sembravano essenziali come lo erano in quelle rare occasioni con mia madre. E quando passammo a descrivere i nostri desideri e le nostre insoddisfazioni, ci scambiammo con grande esuberanza espressioni quali «Sì, sì» ed «Esattamente» e «So molto bene che cosa intendete» e «Sì, naturalmente, avete capito che non potevate sopportarlo…» e così via.