Nella luce del cielo continuai a leggere la storia di Sam Spade e del Falcone Maltese. Guardai la data della rivista e vidi che era il 1929 e pensai: Oh, non è possibile… o sì? E bevvi sangue di ratto quanto bastava per avere la forza di scavare a una grande profondità.
La terra mi circondava. Esseri viventi strisciavano fra le zolle umide contro la mia carne inaridita. E pensai che, se mai fossi risorto, se mai avessi visto un piccolo tratto di cielo notturno pieno di stelle, non avrei mai più fatto cose terribili. Non avrei mai ucciso gli innocenti. Anche quando fossi andato a caccia dei deboli, avrei preso i disperati e i moribondi; lo giuravo. Non avrei più compiuto l’Opera Tenebrosa. Avrei… Ecco, lo sapete, sarei stato la «coscienza continuativa», senza uno scopo, senza nessuno scopo.
Sete. Una sofferenza chiara come la luce.
Vidi Marius. Lo vidi così nitidamente che pensai: Non può essere un sogno! E il mio cuore si dilatò dolorosamente. Marius era splendido. Portava un semplice abito moderno, ma di velluto rosso, e i capelli bianchi erano tagliati corti e pettinati all’indietro. Aveva un grande fascino, quel Marius moderno, e un’agilità scattante che l’abbigliamento del passato aveva a quanto pareva nascosto.
E stava facendo le cose più straordinarie. Aveva davanti una macchina nera su un treppiede e girava una manovella con la destra, e faceva film di mortali in uno studio pieno di luce incandescente. Il mio cuore si gonfiò nel vederlo, nel vedere il modo in cui parlava ai mortali e diceva loro come dovevano abbracciarsi e danzare e muoversi. Scenari dipinti dietro di loro, sì. E al di là delle finestre dello studio c’erano alti edifìci di mattoni, e il rumore delle automobili per la strada.
No, non è un sogno, mi dissi. Sta succedendo veramente. Marius è qui. E se tentassi di vedere la città oltre le finestre, se scoprissi dov’è! Se tentassi, potrei udire la lingua che parla ai giovani attori. «Marius!» dissi, ma la terra intorno a me divorò il suono.
La scena cambiò.
Marius scese in cantina dentro la grande gabbia di un ascensore. Le porte metalliche stridettero e sferragliarono. Entrò nel grande santuario di Coloro-che-devono-essere-conservati. E tutto era diverso. Niente più affreschi egizi, profumo di fiori e brillio d’oro.
Le pareti altissime erano coperte dei colori degli impressionisti, e con miriadi di frammenti formavano un mondo vibrante del secolo ventesimo. Gli aerei volavano sopra le città assolate, i grattacieli s’innalzavano oltre le arcate dei ponti d’acciaio, navi di ferro fendevano i mari argentei. Era un universo che dissolveva i muri su cui era raffigurato, e circondava le figure immobili e immutate di Akasha ed Enkil.
Marius si muoveva nella cappella, fra sculture aggrovigliate e apparecchi telefonici, macchine per scrivere su sostegni di legno. Mise un grande grammofono davanti a Coloro-che-devono-essere-conservati. Appoggiò delicatamente la puntina sul disco che girava. Dalla tromba metallica uscì un esile valzer viennese.
Risi nel vedere quella dolce invenzione posta davanti a loro come un’offerta. Il valzer era come l’incenso che saliva nell’aria.
Marius non aveva ancora finito. Aveva srotolato contro il muro uno schermo bianco. Da una piattaforma dietro il dio e la dea proiettò sullo schermo un film dei mortali. Coloro-che-devono-essere-conservati fissavano muti le immagini guizzanti. Statue in un museo, mentre la luce elettrica brillava sulla loro pelle bianca.
E poi accadde una cosa meravigliosa. Le figure sussultanti del film cominciarono a parlare. Parlavano veramente, nello stridore del valzer che usciva dal grammofono.
E mentre guardavo, paralizzato dall’eccitazione e dalla gioia di ciò che vedevo, una grande tristezza mi sommerse all’improvviso, una grande rivelazione schiacciante. Era soltanto un sogno. Perché in verità le figure del film non potevano parlare.
La camera e le sue piccole meraviglie persero ogni sostanza, si offuscarono.
Ah, orrida imperfezione, orrido indizio del fatto che avevo immaginato tutto. E l’avevo creato con frammenti di realtà… i film muti che avevo visto nel piccolo cinema chiamato Happy Hour, i grammofoni che avevo sentito intorno a me in cento case, nel buio.
E il valzer viennese, ah, era tratto dall’incantesimo che Armand aveva operato su di me, troppo straziante per ricordarlo.
Perché non ero stato un po’ più ingegnoso nell’ingannare me stesso, perché non avevo fatto in modo che il film fosse muto come doveva? Allora avrei potuto continuare a credere che fosse stata una visione autentica.
Ma quella era la prova definitiva della mia invenzione, dell’audace fantasia egoistica. Akasha, la mia amatissima, mi parlava!
Akasha era sulla soglia della camera e guardava il corridoio sotterraneo dell’ascensore che aveva riportato Marius al mondo di lassù. I capelli neri scendevano folti e pesanti sulle spalle candide. Alzò la mano bianca per chiamarmi. La bocca era rossa.
«Lestat!» sussurrò. «Vieni.»
I suoi pensieri si irradiavano da lei senza suono, nelle parole della vecchia regina vampira pronunciate sotto il Cimitero degli Innocenti, tanti anni prima:
Dal mio cuscino di pietra ho sognato il mondo dei mortali. Ho udito le sue voci, la sua musica nuova, come nenie che mi cullano nella tomba. Ho visto le sue scoperte fantastiche, ho conosciuto il suo coraggio nel sacrario eterno dei miei pensieri. E, sebbene mi escluda con le sue forme abbaglianti, attendo qualcuno che abbia la forza di aggirarvisi senza paura e di percorrere la Strada del Diavolo attraverso il suo cuore.
«Lestat!» sussurrò di nuovo Akasha. Il suo volto marmoreo era tragicamente animato. «Vieni!»
«Oh, mia adorata», dissi, e sentii tra le labbra il sapore amaro della terra. «Oh, se lo potessi.»
Lestat de Lioncourt
nell’anno della sua Resurrezione
1984
Dioniso a San Francisco
1.
LA settimana prima che venisse messo in vendita il nostro album, loro si mossero per la prima volta per minacciarci per mezzo del telefono.
La sicurezza che circondava il complesso rock Il Vampiro Lestat era dispendiosa ma quasi impenetrabile. Persino gli editori della mia autobiografia avevano collaborato in pieno. E durante i lunghi mesi delle registrazioni discografiche e televisive, non avevo visto uno solo di loro a New Orleans, e non li avevo sentiti muoversi.
Eppure, chissà come, loro si erano procurati il numero che non figurava sull’elenco e avevano dettato ammonimenti e insulti sulla segreteria telefonica automatica.
«Fuorilegge. Sappiamo che cosa stai facendo. Ti ordiniamo di smettere. Vieni fuori dove possiamo vederti. Ti sfidiamo a farlo.»
Avevo isolato il complesso in una vecchia, deliziosa casa coloniale a nord di New Orleans, e versavo il Dom Pérignon per i ragazzi mentre fumavano hashish, e tutti noi eravamo stanchi per la tensione e i preparativi, ansiosi d’incontrare per la prima volta il pubblico di San Francisco e di assaporare per la prima volta il gusto certo del successo.
Poi la mia avvocatessa, Christine, inoltrò i primi messaggi telefonici (è strano come l’apparecchio avesse catturato il timbro delle voci ultraterrene) e nel cuore della notte condussi i miei musicisti all’aeroporto e spiccammo il volo per l’ovest.
Da quel momento neppure Christine seppe dov’eravamo nascosti. Persino i musicisti non ne erano interamente sicuri. In un lussuoso ranch di Carmel Valley ascoltammo per la prima volta alla radio la nostra musica. Ballammo quando i nostri primi video apparvero in tutta la nazione attraverso la TV via cavo.