E là, sotto il cielo nero e sereno, l’essere si avvicinava, si avvicinava a piedi dalla direzione della strada. Era completamente solo. Il battito di un cuore sovrannaturale nell’oscurità. Sì, lo sentivo con chiarezza. Le colline erano fantasmi in lontananza, e i fiori gialli delle acacie brillavano chiari sotto le stelle.
Sembrava che non avesse paura di nulla. Si avvicinava. I suoi pensieri erano assolutamente impenetrabili. Poteva essere soltanto uno degli antichi e dei più esperti: ma se lo fosse stato, non avrebbe schiacciato l’erba sotto i suoi passi. Si muoveva quasi come un umano. Quel vampiro era stato creato da me.
Il mio cuore batteva irregolarmente. Guardai le minuscole spie luminose di un allarme seminascosto dai drappeggi nell’angolo. Le sirene avrebbero suonato se qualcosa, mortale o immortale, avesse tentato di penetrare nella casa.
Apparve al limitare del cemento chiaro. Una figura alta e snella. Capelli corti e scuri. Poi si soffermò come se potesse vedermi nella nebulosità blu-elettrica dietro il velo della vetrata.
Sì, mi vedeva. E si mosse verso di me, verso la luce. Era agile e si muoveva con troppa leggerezza per un mortale. Capelli neri, occhi verdi, e le membra che guizzavano sotto gli indumenti sciupati: un maglione nero e liso che gli pendeva informe dalle spalle, le gambe simili a lunghi pali neri.
Sentii un nodo stringermi la gola. Tremavo. Cercavo di ricordare ciò che era importante, persino in quel momento: dovevo scrutare la notte per cercare gli altri, dovevo essere guardingo. Pericolo. Ma non aveva più importanza. Sapevo. Chiusi gli occhi per un secondo. Non fu d’aiuto, non facilitò nulla.
Poi tesi la mano verso i pulsanti degli allarmi e li disattivai. Aprii i grandi battenti di vetro e l’aria fredda entrò nella stanza.
Aveva superato l’elicottero, e si voltava come un danzatore per guardarlo, con la testa piegata all’indietro, i pollici infilati con disinvoltura nelle tasche dei jeans neri. Quando mi guardò di nuovo, vidi distintamente la sua faccia. E sorrideva.
Anche la nostra memoria ci può tradire. Lui ne era la prova. Mentre si avvicinava, delicato e accecante come un laser, tutte le vecchie immagini si disperdevano come polvere.
Rimisi in funzione il sistema d’allarme, chiusi la porta e girai la chiave nella serratura. Per un secondo pensai: Non lo sopporto. E questo è soltanto l’inizio. E se lui è qui, a pochi passi da me, sicuramente verranno anche gli altri. Verranno tutti.
Mi voltai e mi incamminai verso di lui. Per un momento lo studiai in silenzio nella luce azzurra che filtrava dai vetri. Dissi, con voce tesa:
«Dove sono il mantello nero e la giacca splendidamente confezionata e la cravatta di seta e tutte le altre sciocchezze?»
Ci guardammo negli occhi.
Poi spezzò quell’immobilità e rise in silenzio. Ma continuò a studiarmi con un’espressione rapita che mi dava una gioia segreta. E, con l’audacia di un bambino, tese la mano e passò le dita sul bavero della mia giacca di velluto.
«Non si può sempre essere una leggenda vivente», disse. La voce era come un sussurro che non era un sussurro. E sentivo chiaramente il suo accento francese, sebbene non fossi mai riuscito a sentire il mio.
Stentavo a sopportare il suono delle sillabe, la loro completa familiarità.
E dimenticai tutte le frasi acide che avevo avuto intenzione di dire e lo presi tra le braccia.
Ci abbracciammo come non avevamo mai fatto in passato. Ci abbracciammo come un tempo facevamo io e Gabrielle. Poi gli passai le mani sui capelli e sul viso, per guardarlo come se appartenesse a me. Fece altrettanto. Parlammo e non parlammo. Voci sincere e silenziose, senza parole. Annuimmo un poco. E lo sentii traboccare d’affetto e di una soddisfazione febbrile che sembrava forte quasi quanto la mia.
Ma all’improvviso si fermò e il suo volto divenne un po’ tirato.
«Credevo che fossi morto, lo sai?» disse. La voce si udiva appena.
«Come mi hai trovato?» chiesi.
«Tu volevi che ti trovassi», rispose. Un bagliore di confusione innocente. Scrollò le spalle.
Tutto ciò che faceva mi magnetizzava come era avvenuto oltre un secolo prima. Le dita erano lunghe e delicate, e tuttavia le mani erano così forti.
«Hai lasciato che ti vedessi e ti seguissi», disse. «Giravi in macchina avanti e indietro in Divisadero Street e mi cercavi.»
«Eri ancora lì?»
«Per me è il posto più sicuro del mondo», rispose. «Non lo lascio mai. Sono venuti a cercarmi, non mi hanno trovato e se ne sono andati. Ora mi muovo tra loro quando voglio e non mi conoscono. In realtà, non hanno mai saputo che aspetto avessi.»
«E se lo sapessero cercherebbero di annientarti», dissi.
«Sì», rispose. «Ma hanno sempre cercato di farlo dopo quello che accadde nel Teatro dei Vampiri. Naturalmente, Intervista col Vampiro ha dato loro nuovi motivi. E hanno bisogno di giustificazioni per i loro giochetti. Hanno bisogno dell’impeto, dell’eccitazione. Se ne nutrono come se fosse sangue.» Per un secondo, la sua voce assunse toni affaticati.
Trasse un respiro profondo. Era difficile parlarne. Avrei voluto abbracciarlo di nuovo, ma non lo feci.
«Ma al momento», disse, «credo che vogliano annientare te. E sanno che aspetto hai.» Un lieve sorriso. «Ormai tutti lo sanno. Monsieur Le Rock Star.»
Il sorriso si allargò. Ma il tono era garbato e basso come sempre. Il viso era soffuso di sentimento. Non era ancora avvenuto il minimo cambiamento. Forse non sarebbe mai avvenuto.
Gli passai il braccio intorno alle spalle e ci allontanammo insieme dalle luci della casa. Passammo accanto alla massa grigia dell’elicottero, nel campo arso dal sole, e ci avviammo verso le colline.
Penso che essere tanto felice equivalga a essere infelice, che sentire una soddisfazione tanto grande equivalga ad ardere.
«Sei deciso ad andare sino in fondo?» mi chiese. «Il concerto di domani sera?»
Pericolo per tutti noi. Era stato un avvertimento o una minaccia?
«Sì, certo», risposi. «Cosa diavolo potrebbe fermarmi?»
«Io vorrei fermarti», rispose. «Sarei venuto prima, se avessi potuto. Ti ho individuato una settimana fa, e poi ti ho perduto.»
«E perché vuoi fermarmi?»
«Sai il perché», disse. «Voglio parlarti.» Erano così semplici, quelle parole, eppure avevano un significato così grande.
«Avremo tempo dopo», risposi. «Domani e domani e ancora domani. Non succederà niente. Vedrai.» Continuavo a guardarlo e a distogliere lo sguardo da lui, come se i suoi occhi verdi mi ferissero. Secondo il gergo moderno, era veramente un raggio laser. Sembrava delicato e letale. Le sue vittime l’avevano sempre amato.
E io l’avevo sempre amato, nonostante tutto ciò che era accaduto… E quanto poteva diventare forte, l’amore, se avevi l’eternità per alimentarmi, e se bastavano solo quei pochi momenti per rinnovare lo slancio e l’ardore?
«Come puoi esserne sicuro, Lestat?» mi chiese. Era così intimo, il fatto che pronunciasse il mio nome. E io non avevo trovato la forza di dire «Louis» con la stessa naturalezza.
Ora camminavamo lentamente, senza una direzione, e mi cingeva con un braccio come io cingevo lui.
«Ho un battaglione di mortali che ci proteggono», dissi. «Ci saranno guardie del corpo sull’elicottero e in macchina con i miei mortali. Viaggerò solo dall’aeroporto con la Porsche, e così potrò difendermi più facilmente, ma avremo un vero corteo. E comunque, cosa potrebbe fare un pugno di novizi del ventesimo secolo? Quegli idioti si servono del telefono per le loro minacce.»