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Adesso era il mio turno di apparire triste e ferito. E il Momento Aureo era passato irreparabilmente… a meno che accadesse qualcosa di nuovo.

«Sì», dissi all’improvviso. «Prendi il tuo violino e andiamo nella foresta, dove la musica non sveglierà nessuno. Vedremo se non esprime il bene.»

«Sei pazzo», disse lui. Ma prese la bottiglia non ancora stappata e si avviò alla porta.

Lo seguii.

Quando uscì da casa sua con il violino, disse: «Andiamo nel luogo delle streghe! Guarda, c’è la mezzaluna. La luce non manca. Eseguiremo la danza del diavolo e suoneremo per gli spiriti delle streghe.»

Risi. Dovevo essere ubriaco per acconsentire. «Riconsacreremo quel posto», insistetti, «con la musica buona e pura.»

Erano molti anni che non andavo nel luogo delle streghe.

La luna era abbastanza fulgida per consentirci di vedere i pali carbonizzati disposti in un cerchio macabro e il suolo dove non cresceva nulla, neppure un secolo dopo i roghi. Gli alberelli nuovi della foresta si tenevano a distanza. Il vento batteva la radura e in alto, sul pendio roccioso, il villaggio stava annidato nell’oscurità.

Un brivido mi sfiorò; ma era soltanto l’ombra dell’angoscia che avevo provato da bambino quando avevo sentito quelle parole orribili, «bruciati vivi», e avevo immaginato la sofferenza.

I pizzi bianchi di Nicki spiccavano alla luce lunare. Attaccò subito una canzone zingaresca e continuò a danzare in cerchio mentre la suonava.

Sedetti su un grosso ceppo bruciato e mi attaccai alla bottiglia. E mi assalì la sensazione straziante che accompagnava sempre la musica. Quale peccato più grande, pensai, di vivere tutta la mia vita in quel posto orrendo? Ben presto cominciai a piangere in silenzio.

Benché sembrasse che la musica non si fosse mai interrotta, Nicki mi stava confortando. Eravamo seduti a fianco a fianco e mi diceva che il mondo era pieno di iniquità e che io e lui eravamo prigionieri di quell’angolo della Francia e un giorno ne saremmo evasi. E io pensavo a mia madre, lassù nel castello, e la tristezza diventava insopportabile. Poi Nicki riprese a suonare e mi disse di ballare e di dimenticare tutto.

Sì, ecco cosa può indurti a fare la musica, avrei voluto dire. È peccato? Come può essere male? Lo seguii mentre ballava in cerchio. Le note parevano involarsi dal violino come se fossero d’oro. Sembrava di vederle lampeggiare. Ballai in tondo con lui, e Nicki suonò una musica più profonda e convulsa. Allargai il mantello foderato di pelliccia e rovesciai la testa per guardare la luna. La musica saliva intorno a me come fumo, e il luogo delle streghe non esisteva più. C’era soltanto il cielo che s’inarcava sopra le montagne.

Questo ci rese ancora più vicini nei giorni che seguirono.

Ma qualche sera più tardi accadde qualcosa di straordinario.

Era tardi. Eravamo nella locanda e Nicolas, che si aggirava per la stanza e gesticolava in maniera teatrale, proclamò ciò che avevamo sempre avuto nella mente.

Dovevamo fuggire a Parigi anche se eravamo squattrinati, perché sarebbe stato sempre meglio che rimanere lì. Anche a costo di vivere a Parigi come mendicanti! Sì, sarebbe stato comunque meglio.

Naturalmente, da diverso tempo quella decisione si agitava in noi.

«Be’, dovremmo fare gli accattoni per le strade, Nicki», dissi. «Che io sia dannato se farò il povero cugino di campagna che va a mendicare nelle grandi case.»

«Credi che voglia vederti far questo?» chiese lui. «Io parlo di fuggire, Lestat. In spregio a tutti, tutti quanti.»

Volevo continuare così? I nostri padri ci avrebbero maledetti. Dopotutto, lì la nostra vita non aveva significato.

Naturalmente, sapevamo entrambi che fuggire insieme sarebbe stato mille volte più serio di ciò che avevamo fatto in precedenza. Non eravamo più ragazzi: eravamo uomini. I nostri padri ci avrebbero maledetti, e nessuno dei due poteva ridere di quella prospettiva.

Ed eravamo abbastanza adulti per sapere cosa significava la miseria.

«Che cosa farò a Parigi quando avremo fame?» chiesi. «Sparerò ai ratti per mangiarli?»

«Se sarà necessario, suonerò il violino sul Boulevard du Temple, e tu potrai andare a teatro!» Ora Nicki mi sfidava. Stava dicendo: Sai soltanto parlare, Lestat? «Con il tuo aspetto, sai, arriverai molto presto sul palcoscenico in Boulevard du Temple.»

Apprezzavo quel cambiamento nella «nostra conversazione»: mi piaceva vederlo credere che avremmo potuto farlo. Tutto il suo cinismo era svanito, sebbene il termine «dispregio» venisse pronunciato ogni dieci parole. All’improvviso sembrava possibile fare tutto.

E la convinzione dell’assenza di un significato nelle nostre vite cominciò a infiammarci.

Tornai ad affermare che musica e recitazione erano il bene perché respingevano il caos. Il caos era l’insignificanza della vita quotidiana; e, se fossimo morti in quel momento, le nostre vite sarebbero state prive di significato. Anzi, pensai che era privo di significato anche il fatto che mia madre sarebbe morta presto, e confidai a Nicolas ciò che aveva detto: «Mi fa orrore. Ho paura».

Ecco, se nella stanza c’era stato un Momento Aureo, adesso era svanito. E incominciò ad accadere qualcosa di diverso.

Dovrei chiamarlo Momento Tenebroso, pur se era vibrante e pieno d’una luce strana. Parlavamo rapidamente e imprecavamo contro l’insignificanza, e quando infine Nicolas sedette e si prese la testa fra le mani, bevvi qualche sorso di vino e cominciai a camminare e a gesticolare come aveva fatto lui fino a poco prima.

E compresi, mentre lo dicevo, che anche quando si muore con ogni probabilità non si scopre perché siamo stati vivi. Persino l’ateo più incallito deve pensare che troverà una risposta nella morte. Voglio dire, scoprirà che Dio c’è o che non c’è nulla.

«Ma è proprio così», esclamai. «In quel momento non facciamo nessuna scoperta! Smettiamo di esistere. Passiamo all’inesistenza senza sapere nulla.» Vedevo l’universo, il sole, i pianeti e le stelle, e la notte nera che si protrae in eterno. Cominciai a ridere. «Te ne rendi conto! Non sapremo mai perché diavolo è successo, neppure quando finirà!» gridai a Nicolas, che era seduto sul letto e annuiva e tracannava il vino. «Moriremo e non sapremo nulla. Non sapremo mai, e questa assenza di significato continuerà per sempre e noi non ne saremo più testimoni. Non avremo neppure il potere di dargli un significato nelle nostre menti. Saremo morti, morti, morti, senza mai sapere!»

Ma avevo smesso di ridere. Rimasi immobile e compresi perfettamente ciò che stavo dicendo.

Non c’era un Giorno del Giudizio, una spiegazione finale, un momento luminoso in cui i torti terribili sarebbero stati riparati, gli orrori riscattati.

Le streghe arse sul rogo non sarebbero mai state vendicate.

Nessuno ci avrebbe mai detto nulla!

No, in quel momento non lo capivo. Lo vedevo! Esclamai «Oh!» e ripetei «Oh!» sempre più forte, e lasciai cadere sul pavimento la bottiglia di vino. Mi portai le mani alla testa e continuai a ripeterlo, e vidi la mia bocca aperta in quel cerchio perfetto che avevo descritto a mia madre: «Oh, oh, oh!»

Lo dicevo come se fosse un grande singulto che non potevo arrestare. Nicolas mi afferrò e mi scosse esclamando:

«Lestat, smetti!»

Non potevo smettere. Corsi alla finestra, l’aprii e guardai le stelle. Non ne sopportavo la vista. Non sopportavo la vista del vuoto puro e il silenzio, l’assenza assoluta di ogni risposta; cominciai a ruggire mentre Nicolas mi tirava indietro e richiudeva la finestra.

«Ti passerà», disse più volte. Qualcuno bussava alla porta. Era il locandiere: voleva sapere perché ci comportavamo in quel modo.

«Domattina starai benone», continuava a insistere Nicolas. «Basta che ci dorma sopra.»