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Avevamo svegliato tutti. Non riuscivo a star zitto. Ripetevo sempre lo stesso suono. Corsi fuori della locanda, seguito da Nicolas, percorsi la via del villaggio verso il castello, mentre lui cercava di raggiungermi, varcai la porta e salii nella mia camera.

«Hai bisogno di dormire, di dormire», continuava a dirmi disperatamente, mentre giacevo contro il muro con le mani sugli orecchi e quel suono continuava a uscirmi dalla bocca; «Oh, oh, oh».

«Domattina andrà meglio», disse lui.

L’indomani mattina non andava meglio.

E non andò meglio neppure quando scese la notte; anzi peggiorò con l’oscurità.

Camminavo e parlavo e gesticolavo come un essere umano contento, ma soffrivo. Rabbrividivo. Mi battevano i denti e non riuscivo a trattenermi. Guardavo con orrore tutto ciò che avevo attorno. Il buio mi atterriva. Mi atterriva la vista delle vecchie armature nella sala grande. Fissavo la mazza ferrata e il mazzafrusto che avevo portato con me per dare la caccia ai lupi. Fissavo le facce dei miei fratelli. Fissavo tutto e vedevo dietro ogni configurazione di colore e di luce e d’ombra la stessa cosa: la morte. Ma non era semplicemente la morte come l’avevo immaginata prima: era la morte come la vedevo adesso. La morte vera, la morte totale, inevitabile e irreversibile che non risolveva nulla!

In questo stato d’agitazione insopportabile incominciai a fare qualcosa che non avevo mai fatto. Mi rivolgevo a coloro che mi stavano intorno e li interrogavo implacabilmente.

«Ma tu credi in Dio?» chiesi a mio fratello Augustin. «Come puoi vivere, se non ci credi?»

«Ma credi davvero in qualcosa?» domandai a mio padre. «Se sapessi di stare per morire in questo momento, ti aspetteresti di vedere Dio o la tenebra? Dimmelo!»

«Sei pazzo, sei sempre stato pazzo!» gridò mio padre. «Vattene da questa casa o ci farai impazzire tutti!»

Si alzò, faticosamente perché era invalido e cieco, e cercò di tirarmi addosso il bicchiere. Naturalmente mi mancò.

Non potevo guardare mia madre. Non sopportavo di starle vicino. Non volevo farla soffrire con le mie domande. Andavo alla locanda. Non tolleravo di pensare al luogo delle streghe. Per nulla al mondo mi sarei spinto fino a quella parte del villaggio! Mi tappavo le orecchie con le mani e chiudevo gli occhi. «Andate via!» dicevo al pensiero di coloro che erano morti così senza comprendere mai, mai, nulla.

Il secondo giorno non andò meglio.

E non andò meglio la fine della settimana.

Mangiavo, bevevo, dormivo, ma ogni momento di veglia era fatto di panico e di sofferenza. Andai dal prete del villaggio e chiesi se credeva davvero che il Corpo di Cristo fosse presente sull’altare alla consacrazione. E, dopo aver ascoltato i suoi balbettii di risposta e aver letto la paura nei suoi occhi, me ne andai più disperato di prima.

«Ma come puoi vivere, come puoi continuare a respirare e muoverti e agire quando sai che non c’è spiegazione?» Ormai deliravo. Poi Nicolas disse che forse la musica mi avrebbe fatto sentire meglio, e che avrebbe suonato il violino.

Avevo paura di quell’intensità. Ma andammo nel frutteto e, al sole, Nicolas suonò tutte le melodie che conosceva. Stavo seduto con le braccia conserte e le ginocchia piegate e i denti che mi battevano sebbene fosse caldo, e il sole brillava sul violino lucido. Guardavo Nicolas che si lanciava nella musica, di fronte a me, e i suoni crudi e puri ingigantivano magicamente fino a riempire il frutteto e la valle, anche se non era una magia; e alla fine Nicolas mi abbracciò e restammo così in silenzio, e poi mi disse, a voce molto bassa: «Lestat, credimi: passerà».

«Suona ancora», lo esortai. «La musica è innocente.»

Sapevo che non sarebbe passato, e per il momento nulla poteva farmelo dimenticare: ma provavo una gratitudine inesprimibile per la musica, per il fatto che in quell’orrore potesse esserci qualcosa di tanto bello.

Non si poteva comprendere nulla e non si poteva cambiare nulla. Ma si poteva creare una musica come quella. E provavo la stessa gratitudine quando vedevo ballare i bambini del villaggio, quando vedevo le loro braccia sollevate e le loro ginocchia flesse, e i loro corpi che volteggiavano al ritmo delle canzoni. Mi veniva da piangere nel guardarli.

Andai in chiesa e m’inginocchiai appoggiandomi al muro, guardai le statue antiche e provai la stessa gratitudine osservando le dita scolpite e i nasi e le orecchie e le espressioni dei volti e i drappeggi delle vesti, e non seppi trattenere il pianto.

Almeno avevamo quelle cose belle, avevo detto. Era un bene.

Ma adesso nulla di naturale mi sembrava bello. La vista di un grande albero che si ergeva solo in un campo aveva il potere di farmi tremare e gridare. Bisognava riempire di musica il frutteto.

E lasciate che vi riveli un piccolo segreto. In realtà non mi è mai passata.

6.

Mi chiedo che cosa lo causò. La bevuta e le chiacchiere notturne? Oppure aveva qualcosa a che fare con mia madre e con l’annuncio che sarebbe morta? C’entravano i lupi? Era un sortilegio gettato sulla mia immaginazione dal luogo delle streghe?

Non lo so. Era incominciato come qualcosa che gravava su di me dall’esterno. Un attimo prima era un’idea; un attimo dopo era realtà. Credo che si possa attirare questo genere di cose, ma che non lo si possa far accadere.

Naturalmente doveva attenuarsi. Ma il cielo non ridivenne più di quella sfumatura d’azzurro. Voglio dire, da allora il mondo mi apparve sempre diverso e anche nei momenti di felicità squisita c’erano la tenebra in agguato, il senso della nostra fragilità e della nostra inutilità.

Forse era un presentimento. Ma non credo. Era qualcosa di più importante, e in tutta sincerità non credo ai presentimenti.

Ma, per tornare alla mia storia, durante quella fase di infelicità mi tenni lontano da mia madre. Non intendevo dire a lei queste cose mostruose sulla morte e sul caos. Ma lei sentiva ripetere da tutti che avevo perso la ragione.

E finalmente, la sera della prima domenica di quaresima, venne da me.

Ero solo nella mia camera, e tutti erano scesi al villaggio, al crepuscolo, per vedere il grande falò che ogni anno veniva acceso per consuetudine.

Avevo sempre odiato quella festa. Aveva un aspetto orrido… le fiamme ruggenti, i balli e i canti e i contadini che, dopo, si aggiravano nei frutteti con le torce al ritmo di strane melodie.

Per qualche tempo avevamo avuto un prete che la definiva una celebrazione pagana. Ma s’erano liberati di lui in fretta. I contadini dei nostri monti ci tenevano ai vecchi rituali: e tutto questo serviva a far fruttificare gli alberi e crescere le messi. E in quell’occasione, più che in altre, avevo l’impressione di vedere uomini e donne capaci di bruciare le streghe.

Nello stato d’animo in cui mi trovavo, ispirava terrore. Stavo seduto accanto al mio fuocherello e resistevo all’impulso di andare alla finestra e guardare il grande falò che mi attirava con tanta forza da spaventarmi.

Mia madre entrò, chiuse la porta e mi disse che doveva parlarmi.

Era tutta tenerezza.

«È perché sto morendo, che ti comporti così?» chiese. «Parlamene. E porgimi le mani.»

Mi diede persino un bacio. Era fragile nella vestaglia stinta, e aveva i capelli spettinati. Non sopportavo di vederli così ingrigiti.

Ma le dissi la verità. Non sapevo. Poi spiegai ciò che era accaduto nella locanda. Cercai di non comunicarne l’orrore e la strana logica. Cercai di renderlo meno assoluto.

Mi ascoltò, quindi disse: «Sei un combattente, figlio mio. Non ti rassegni mai. Non ti rassegni neppure se è destino dell’intera umanità.»

«Non posso!» esclamai, avvilito.

«E per questo ti amo», disse mia madre. «È da te comprenderlo in una cameretta di una locanda, a notte alta, mentre bevi vino. Ed è da te infuriarti come ti infuri contro tutto il resto.»