Ricominciai a piangere, sebbene sapessi che mia madre non mi criticava. Poi tirò fuori un fazzoletto, l’aprì e mi mostrò diverse monete d’oro.
«Ti passerà», disse. «Per il momento, la morte rovina la vita ai tuoi occhi, ecco tutto. Ma la vita è più importante della morte. Lo comprenderai presto. Ora ascolta ciò che devo dirti. Ho fatto venire il dottore e la vecchia del villaggio, la guaritrice che ne sa più di lui. Tutti e due convengono con me: non vivrò molto a lungo.»
«Basta, madre», dissi io. Sapevo d’essere egoista, ma non riuscivo a trattenermi. «E questa volta non voglio doni. Metti via quel denaro.»
«Siedi», mi esortò e indicò la panca accanto al focolare. Obbedii, riluttante, e lei mi sedette accanto.
«So che tu e Nicolas parlate di fuggire», disse.
«Non me ne andrò, madre…»
«Non te ne andrai prima che io sia morta?»
Non le risposi. Non so spiegarvi ciò che provavo. Ero ancora sconvolto e tremante, e dovevamo parlare del fatto che quella donna viva avrebbe smesso di respirare, avrebbe incominciato a putrefarsi, e la sua anima sarebbe precipitata in un abisso, e tutto ciò che aveva sofferto nella vita, sino alla fine, si sarebbe concluso nel nulla. Il volto minuto sembrava dipinto su un velo.
E, dal villaggio lontano, giungevano smorzati i canti dei paesani.
«Voglio che tu vada a Parigi, Lestat», mi disse. «Voglio che prenda questo denaro, tutto ciò che mi è rimasto da parte della mia famiglia. Voglio saperti a Parigi, Lestat, quando verrà il mio momento. Voglio morire sapendo che sei a Parigi.»
Ero sbigottito. Ricordavo la sua espressione sconvolta, anni prima, quando mi avevano riportato a casa dopo la fuga con i comici italiani. La guardai per un lungo istante. Aveva assunto un tono quasi incollerito, per rendersi più persuasiva.
«Ho terrore di morire», disse in tono ora gelido. «E ti giuro che impazzirò se non saprò che sei a Parigi, libero, quando per me verrà la fine.»
L’interrogai con gli occhi. Le chiedevo: «Lo pensi veramente?»
«Ti ho tenuto qui come ti ha tenuto qui tuo padre», disse lei. «Non per orgoglio ma per egoismo. E ora intendo rimediare. Ti vedrò andar via. Non m’interessa ciò che farai a Parigi, se canterai mentre Nicolas suonerà il violino, o se farai le capriole sul palcoscenico alla fiera di St.-Germain. Va’, e fa’ ciò che saprai fare meglio.»
Cercai di stringerla fra le braccia. In un primo momento s’irrigidì; ma poi si abbandonò contro di me, così completamente che credo di aver compreso in quel momento perché s’era sempre dominata con tanta decisione. Pianse come non l’avevo mai sentita piangere. E, nonostante la sofferenza, amai quel momento. Mi vergognavo di amarlo; ma non volevo lasciarla andare. La tenni stretta e la baciai per tutte le volte che non mi aveva permesso di farlo. Per un momento fu come se fossimo due parti di una stessa entità.
Quindi si calmò. Parve tornare se stessa e adagio, ma fermamente, si staccò da me e mi respinse.
Parlò a lungo. Disse cose che allora non capii; parlò di quando mi vedeva uscire a caccia e vi trovava un piacere meraviglioso, e provava lo stesso piacere quando facevo infuriare tutti e martellavo di domande mio padre e i miei fratelli e chiedevo perché dovevamo vivere nel modo in cui vivevamo. Parlò in modo quasi misterioso del fatto che ero una parte segreta della sua anatomia, ero per lei l’organo che le donne non hanno.
«Tu sei l’uomo in me», disse. «Perciò ti ho tenuto qui, nel timore di vivere senza di te: e forse ora, mandandoti lontano, sto solo facendo ciò che avrei dovuto fare prima.»
Rimasi piuttosto turbato. Non avevo mai immaginato che una donna potesse provare o esprimere simili pensieri.
«Il padre di Nicolas sa dei vostri progetti», disse. «Il locandiere vi ha sentiti. È importante che te ne vada subito. Prendi la diligenza all’alba, e scrivimi non appena arriverai a Parigi. Troverai gli scrivani presso il cimitero degli Innocenti, vicino al mercato di St.-Germain. Trovane uno che sappia scrivere in italiano: così nessuno potrà leggere la lettera, tranne me.»
Quando mia madre uscì, non riuscivo a credere all’accaduto. Rimasi a lungo con lo sguardo fisso nel vuoto. Fissavo il letto con il materasso di paglia, le due giacche che possedevo e il mantello rosso, e il mio unico paio di scarpe di pelle accanto al focolare. Attraverso la finestra stretta, fissavo la massa nera delle montagne che conoscevo da tutta la vita. La tenebra si allontanò da me per un momento prezioso.
E poi scesi a precipizio le scale, e corsi al villaggio per cercare Nicolas e dirgli che saremmo andati a Parigi! L’avremmo fatto davvero. Niente poteva fermarci.
Era a vedere il falò con la famiglia. Appena mi scorse, mi passò un braccio intorno al collo e io gli cinsi la vita e lo trascinai lontano dalla folla e dalle vampe, verso il margine del prato.
L’aria era fresca e pura, come accade solo in primavera. Persino il canto dei paesani non mi sembrava tanto orribile. Cominciai a ballare in cerchio.
«Prendi il violino!» dissi. «Suona una canzone che parli di Parigi. Partiamo! Partiamo domattina!»
«E a Parigi come vivremo?» cantò Nicolas mentre muoveva le mani come se suonasse un violino invisibile. «Sparerai ai ratti per nutrirci?»
«Non chiedere che cosa faremo quando arriveremo!» dissi. «L’importante è arrivarci.»
7.
Non erano passate neppure due settimane, e io stavo in mezzo alla folla che a mezzogiorno frequentava l’immenso cimitero pubblico degli Innocenti, con le vecchie cripte e le tombe aperte e puzzolenti… Era il mercato più fantastico che avessi mai visto. E tra il lezzo e il rumore, stavo chino su uno scrivano italiano e dettavo la mia prima lettera a mia madre.
Sì, eravamo arrivati dopo aver viaggiato giorno e notte, e alloggiavamo nell’Ile de la Cité, ed eravamo indicibilmente felici, e Parigi era calda e bella e magnifica in un modo che superava l’immaginazione.
Avrei desiderato poter prendere io stesso la penna per scrivere a mia madre.
Avrei desiderato dirle cosa provavo nel vedere i palazzi torreggiami, le antiche vie tortuose piene di mendicanti, venditori, nobili, e le case a quattro e cinque piani che fiancheggiavano i boulevard affollati.
Avrei desiderato descriverle le carrozze rumorose, tutte vetri e dorature, che passavano sul Pont Neuf e sul Pont Notre-Dame e sfrecciavano davanti al Louvre e al Palais Royal.
Avrei desiderato descriverle la gente, gli aristocratici con le calze di seta e i bastoni da passeggio in argento, che camminavano nel fango con le scarpe color pastello, le dame con le parrucche incrostate di perle e gli ampi panieri di seta e di mussola, e la prima volta che avevo visto la regina Maria Antonietta passeggiare nei giardini delle Tuileries.
Naturalmente mia madre aveva già visto tutto anni e anni prima della mia nascita. Era vissuta a Napoli e Londra e Roma con il padre. Ma volevo dirle ciò che mi aveva donato, volevo spiegarle cosa provavo nell’ascoltare il coro di Notre-Dame ed entrando nei caffè affollati con Nicolas, parlando con i suoi vecchi compagni di studi mentre bevevamo il caffè inglese, indossando gli abiti eleganti che Nicolas insisteva per prestarmi, e standomene davanti alle luci della ribalta della Comédie-Francaise a guardare con adorazione gli attori sul palcoscenico.
Ma tutto ciò che scrissi in quella lettera era forse il meglio, l’indirizzo della soffitta che era casa nostra, nell’Ile de la Cité, e la notizia: «Sono stato scritturato in un teatro vero per studiare da attore, con ottime prospettive di recitare molto presto.»
Non le dissi che dovevamo salire sei piani di scale per arrivare all’appartamento, che uomini e donne urlavano e si azzuffavano nei vicoli sotto le nostre finestre, e che eravamo già rimasti senza denaro perché trascinavo Nicolas a vedere tutte le opere, i balletti, i drammi e le commedie della città. E non dissi che lavoravo in uno squallido teatrino di boulevard, poco più di un podio da fiera, e che il mio compito era aiutare gli attori a vestirsi, vendere i biglietti, spazzare per terra e buttar fuori i disturbatori.