Ma io ero di nuovo in paradiso. E lo era anche Nicolas, sebbene nessuna orchestra decente della città volesse scritturarlo, e suonasse gli assolo con il gruppetto di musicisti nel teatro dove lavoravo; e quando eravamo davvero con le spalle al muro suonava sul boulevard, con me accanto che tendevo il cappello. Non avevamo vergogna.
Ogni sera salivamo correndo le scale con la nostra bottiglia di vino scadente e una pagnotta parigina, che sembrava ambrosia in confronto al pane che avevamo mangiato in Alvernia. E, alla luce di un’unica candela di sego, la soffitta era il luogo più splendido che avessi mai abitato.
Come ho detto prima, raramente ero stato in una stanza con le pareti a pannelli di legno, se non nella locanda. Bene, questa stanza aveva muri e soffitto intonacati! Era davvero Parigi! C’era un pavimento di legno lucido e persino un caminetto con una cappa nuova che tirava veramente.
Cosa contava, allora, se dovevamo dormire su pagliericci scomodi, e i vicini ci svegliavano con i loro litigi? Ci svegliavamo a Parigi, e potevamo vagare per ore per vie e vicoli, a guardare i negozi pieni di gioielli e vasellame, arazzi e statue, una ricchezza che non avevo mai veduta. Mi entusiasmavano persino i puzzolenti mercati della carne. Il fragore della città, l’operosità instancabile di migliaia e migliaia di manovali, impiegati, artigiani, l’andirivieni di una moltitudine sterminata…
Di giorno quasi dimenticavo le visioni della locanda e la tenebra. A meno che, naturalmente, scorgessi in un vicolo sporco un cadavere abbandonato, o capitassi a un’esecuzione pubblica in Place de Grève.
E capitavo sempre alle esecuzioni pubbliche in Place de Grève.
Lasciavo la piazza scosso da brividi e quasi gemendo. Poteva diventare un’ossessione, se non mi distraevo. Ma Nicolas era inflessibile.
«Lestat, non parlare dell’eterno, dell’immutabile, dell’inconoscibile!» E minacciava di darmi uno scrollone, se avessi cominciato.
E quando veniva il crepuscolo, l’ora che più odiavo, sia che avessi assistito a un’esecuzione o no, sia che la giornata fosse stata piacevole o fastidiosa, cominciavo a tremare. Una sola cosa poteva salvarmi: il calore e l’eccitazione del teatro illuminato; e prima dell’imbrunire ero sempre là.
Nella Parigi di quei tempi, i teatri dei boulevard non erano neppure legittimi. Solo la Comédie-Francaise e il Théàtre des Italiens avevano l’approvazione del governo, e spettava a loro tutta la drammaturgia seria. E questo includeva la tragedia oltre alla commedia: le opere di Racine, Corneille e del brillante Voltaire.
Ma la vecchia commedia italiana che amavo, con Pantalone, Arlecchino, Scaramuccia e gli altri, viveva come era sempre vissuta, con i funamboli e gli acrobati, i giocolieri e i burattinai, negli spettacoli delle fiere di St.-Germain e di St.-Laurent.
I teatri dei boulevard erano nati da quelle fiere. Ai miei tempi, negli ultimi decenni del diciottesimo secolo, erano istituzioni permanenti lungo il Boulevard du Temple; e, sebbene recitassero per i poveri che non potevano permettersi di frequentare i grandi spettacoli, attiravano anche un pubblico di benestanti. Molti aristocratici e ricchi borghesi si affollavano per assistere a quelle rappresentazioni perché erano vivaci e piene di fantasia, e meno paludate delle tragedie del grande Racine e del grande Voltaire.
Noi facevamo la commedia italiana come l’avevo già imparata, piena d’improvvisazione, in modo che ogni sera era nuova e diversa pur restando sempre eguale. Inoltre cantavamo e mettevamo in scena ogni sorta di sciocchezze, non solo perché al pubblico piaceva, ma perché dovevamo farlo. Non volevamo esser accusati di infrangere il monopolio dei teatri di stato.
Il teatro era di legno, tutto traballante, e c’erano non più di trecento posti a sedere; ma il palcoscenico e le quinte erano eleganti, c’era un lussuoso sipario di velluto blu, i palchi privati avevano gli schermi. E gli attori e le attrici erano esperti e dotati di talento: o almeno così mi pareva.
Anche se non avessi avuto quel nuovo timore del buio, quella «malattia della mortalità», come insisteva a chiamarla Nicolas, non avrebbe potuto essere più eccitante varcare la porta del palcoscenico.
Ogni sera, per cinque o sei ore, vivevo e respiravo in un piccolo universo di uomini e donne che gridavano e ridevano e litigavano, si schieravano in favore di questo e contro quello, mentre tutti noi tra le quinte eravamo compagni anche se non eravamo amici. Forse era come essere su una piccola barca nell’oceano, dove remavamo tutti insieme, incapaci di sfuggire l’uno all’altro. Era divino.
Nicolas era un po’ meno entusiasta, ma questo era prevedibile. E diventava sempre più ironico quando i suoi ricchi amici studenti venivano a parlargli. Lo ritenevano pazzo perché viveva così. Quanto a me, un nobile che aiutava le attrici a infilarsi nei costumi e vuotava i secchi, non mi degnavano di una parola.
Naturalmente, tutti quei giovani borghesi desideravano essere aristocratici. Compravano titoli, si alleavano per matrimonio alle famiglie nobili non appena potevano. Ed è uno degli scherzetti della storia il fatto che s’immischiassero nella rivoluzione e contribuissero ad abolire la classe nella quale volevano in realtà entrare.
Non m’importava se non vedevamo più gli amici di Nicolas. Gli amici non sapevano niente della mia famiglia; e avevo abbandonato il mio vero nome, de Lioncourt, per chiamarmi semplicemente Lestat de Valois, che non significava nulla.
Imparavo tutto ciò che potevo sul teatro. Imparavo a memoria, imitavo. Facevo domande interminabili. E interrompevo la mia istruzione, ogni sera, solo per quel momento in cui Nicolas suonava l’assolo con il violino. Si alzava nella minuscola orchestra, il riflettore lo inquadrava; e allora si lanciava in una sonatina, abbastanza dolce e breve da far crollare il teatro.
E intanto io sognavo il mio momento, quando i vecchi attori che studiavo e assillavo, imitavo e servivo come un lacchè, avrebbero detto finalmente: «Sta bene, Lestat, stasera abbiamo bisogno di te nella parte di Lelio. Ormai dovresti sapere che cosa fare».
E finalmente accadde, alla fine d’agosto.
A Parigi faceva molto caldo, le notti erano tiepide e il teatro era pieno di spettatori che si ventolavano con i fazzoletti e i programmi. Lo spesso cerone bianco mi colava sulla faccia appena lo applicavo.
Portavo una spada di cartapesta con la più bella giacca di velluto avuta in prestito da Nicolas, e tremavo un attimo prima di uscire sul palcoscenico. Pensavo: è come essere in attesa di venire giustiziato.
Ma appena uscii e mi voltai a guardare la sala stipata, accadde una cosa stranissima. La paura svanì.
Sorrisi al pubblico e m’inchinai lentamente. Fissai la bella Flaminia come se la vedessi per la prima volta. Dovevo conquistarla. Il gioco incominciò.
Il palcoscenico mi apparteneva com’era già avvenuto anni prima in quella remota cittadina di campagna. E mentre ci muovevamo insieme, come matti, e litigavamo, ci abbracciavamo, facevamo i buffoni, le risate facevano tremare il teatro.
Sentivo l’attenzione come un abbraccio. Ogni gesto, ogni battuta strappavano un clamore al pubblico… era quasi fin troppo facile. Avremmo potuto continuare per un’altra mezz’ora se gli attori, impazienti d’incominciare una nuova scena, non ci avessero sospinti verso le quinte.
Il pubblico si alzò per applaudirci. E non era un pubblico campagnolo su una piazza. Erano parigini che invocavano il ritorno sulla scena di Lelio e Flaminia.
Nell’ombra delle quinte, vacillavo. Stavo per cadere. Per il momento avevo soltanto la visione del pubblico che mi guardava al di sopra delle luci della ribalta. Volevo tornare in palcoscenico. Afferrai Flaminia, la baciai, e mi accorsi che ricambiava il mio bacio appassionatamente.