«Te l’ho già detto, non lo so!» Rimasi seduto a pensare senza dir nulla; forse ero disgustato dall’apparenza ridicola di quella storia.
E mentre stavamo in silenzio e il fuoco era l’unica fonte di suono e di movimento nella stanza, l’espressione «Uccisore di Lupi» mi giunse distintamente come se qualcuno l’avesse pronunciata.
Ma non l’aveva pronunciata nessuno.
Guardai Nicki, dolorosamente consapevole che le sue labbra non si erano mosse; e credo che tutto il sangue mi defluisse dal volto. Non provavo il timore della morte, come era avvenuto tante altre notti, bensì una sensazione che per me era veramente estranea: la paura.
Ero ancora lì seduto, troppo insicuro per dire qualcosa, quando Nicolas mi baciò.
«Andiamo a letto», disse sottovoce.
PARTE II
L’EREDITÀ DI MAGNUS
1.
Saranno state le tre del mattino quando sentii nel sonno le campane della chiesa.
E, come tutti coloro che a Parigi avevano un po’ di buon senso, tenevamo la porta sbarrata e la finestra ben chiusa. Non era l’ideale per una stanza dove ardeva un fuoco di carbone; ma il tetto era un sentiero per giungere alla nostra finestra. Perciò ci eravamo chiusi dentro.
Sognavo i lupi. Ero sulla montagna, circondato, e mulinavo il mazzafrusto medievale. Poi i lupi erano di nuovo morti, e il sogno era meno terribile, ma dovevo camminare nella neve per tutte quelle miglia. Sulla neve, la cavalla urlava. Si trasformava in un insetto ripugnante, semischiacciato sul pavimento di pietra.
Una voce disse «Uccisore di Lupi», in un bisbiglio protratto che era come una chiamata e nel contempo un omaggio.
Aprii gli occhi. O credetti di aprirli. E nella stanza c’era qualcuno. Una figura alta e curva che voltava le spalle al nostro caminetto. Nel focolare brillavano ancora le braci. La luce saliva, delineava nitidamente i contorni della figura, quindi si spegneva prima di lambire le spalle e la testa. Ma capivo che stavo guardando la faccia bianca vista tra il pubblico a teatro; e la mia mente che si schiudeva e diventava più acuta si rendeva conto che la stanza era chiusa a chiave, che Nicolas era sdraiato accanto a me e che quella figura stava sopra il nostro letto. Sentivo il respiro di Nicolas. E scrutavo la faccia bianca.
«Uccisore di Lupi», disse nuovamente la voce. Ma le labbra non si erano mosse. La figura venne più vicina e vidi che la faccia non era una maschera. Occhi neri, svelti e calcolatori, e pelle bianca, e un odore disgustoso, come quello degli indumenti ammuffiti in una camera umida.
Mi alzai, credo. O forse venni sollevato. In un istante mi trovai in piedi. Il sonno mi scivolava di dosso, e io indietreggiavo contro la parete.
La figura aveva nelle mani il mio mantello rosso. Pensai disperatamente alla mia spada e ai miei moschetti. Erano sul pavimento, sotto il letto. L’essere spinse verso di me il mantello rosso; poi, attraverso il velluto foderato di pelliccia, sentii la sua mano chiudersi sul bavero della mia giacca.
Mi sentii strattonare in avanti, e sollevare da terra. Gridai per chiamare Nicolas. Urlai «Nicki, Nicki!» più forte che potei. Vidi la finestra aperta parzialmente, e all’improvviso il vetro esplose in mille frammenti e la cornice di legno si spezzò. Volai sopra il vicolo, a sei piani da terra.
Urlai. Scalciai contro l’essere che mi trasportava. Impigliato nel mantello rosso, mi contorsi nel tentativo di liberarmi.
Ma stavamo volando sopra i tetti, salivamo la superfìcie verticale d’un muro di mattoni! Pendevo dal braccio dell’essere. E all’improvviso, su un pianoro altissimo, fui buttato a terra.
Per un momento rimasi steso a guardare Parigi, spiegata davanti a me in un grande cerchio… la neve bianca e i comignoli e i campanili delle chiese e il cielo cupo. Poi mi alzai, inciampai nel mantello foderato di pelliccia e cominciai a correre. Corsi fino all’orlo del pianoro e guardai giù. C’era uno strapiombo di centinaia di piedi. Corsi a un altro angolo, ed era esattamente lo stesso. Per poco non caddi.
Mi voltai disperato, ansimando. Eravamo in cima a una torre quadrata, non più ampia di cinquanta piedi. E non vedevo nulla di più alto in nessuna direzione. La figura mi fissava, ed emetteva una risata sommessa e gracchiante, simile al bisbiglio di poco prima.
«Uccisore di Lupi», ripeté.
«Maledetto!» gridai. «Chi diavolo sei?» In preda alla collera, mi avventai alzando i pugni.
Non si mosse. La colpii come se fosse un muro. Rimbalzai all’indietro, letteralmente. Persi l’equilibrio nella neve, mi rialzai e l’attaccai di nuovo.
La risata divenne ancora più fragorosa, volutamente beffarda, ma con una sfumatura di piacere ancor più esasperante del sarcasmo. Corsi all’orlo della torre e mi voltai di nuovo verso quell’essere.
«Che cosa vuoi da me?» chiesi. «Chi sei?» E quando l’essere continuò nella risata esasperante, mi avventai ancora. Ma questa volta mi scagliai contro la faccia e il collo, protesi le mani come artigli, strappai il cappuccio e vidi i capelli neri dell’essere e la forma della testa umana. La pelle era morbida. Tuttavia era inamovibile come prima.
Indietreggiò un poco e alzò le braccia per giocare con me, per spingermi avanti e indietro come un uomo spingerebbe un bambino. Troppo rapidamente perché i miei occhi lo seguissero, liberò la faccia dalle mie mani, girandola prima da una parte e poi dall’altra e compiendo tutti questi movimenti con facilità irrisoria, mentre io tentavo freneticamente di fargli del male, e non sentivo altro che quella pelle morbida e bianca sotto le dita e, una volta o due, i fini capelli neri.
«Il piccolo, forte, coraggioso Uccisore di Lupi», mi disse la figura con una voce più sonora e profonda.
Mi fermai ansante e coperto di sudore, e lo fissai. Vidi i dettagli del suo viso. Le rughe profonde che avevo appena intravisto a teatro, la bocca tirata in un sorriso buffonesco.
«Oh, Dio, aiutami, aiutami…» dissi mentre indietreggiavo. Mi pareva impossibile che quella faccia si muovesse, mostrasse un’espressione e mi guardasse con tanto affetto. «Dio!»
«A quale dio alludi, Uccisore di Lupi?» chiese l’essere.
Gli voltai le spalle e proruppi in un ruggito terribile. Sentii le sue mani chiudersi sulle mie spalle come oggetti forgiati di metallo, e mentre piombavo in un’ultima, frenetica resistenza, mi fece girare con violenza in modo che mi trovai con i suoi occhi davanti, spalancati e scuri, mentre le labbra erano chiuse e tuttavia ancora sorridenti. Quindi si chinò e io sentii la puntura dei denti nel collo.
E da tutte le fiabe dell’infanzia, le vecchie favole, tornò alla mia memoria il nome, come un animale annegato che risalga alla superficie dell’acqua nera e si liberi nella luce.
«Vampiro!» proruppi in un ultimo grido convulso, e respinsi l’essere con tutte le mie forze.
Poi vi fu un silenzio. L’immobilità.
Sapevo che eravamo ancora sul tetto. Sapevo che l’essere mi teneva tra le braccia. Tuttavia sembrava che fossimo saliti e avessimo perso ogni peso e ci muovessimo nell’oscurità ancora più agevolmente di prima,
«Sì, sì», avrei voluto dire. «Esattamente.»
E un gran fragore echeggiò tutto intorno a me e mi avviluppò; forse era il suono di un gong immenso, battuto con grande lentezza e in un ritmo perfetto. Il suono mi pervadeva, e provavo un piacere straordinario che mi si diffondeva in tutte le membra.
Le mie labbra si muovevano, ma non ne usciva il minimo suono; nondimeno, nulla aveva importanza. Tutte le cose che avevo desiderato dire nella vita mi erano chiare, e questo era ciò che contava… anche se non veniva espresso. E c’era tanto tempo, tempo per dire qualunque cosa e fare qualunque cosa. Non c’era nessuna urgenza.
Estasi. Pronunciai quella parola e mi parve chiarissima, sebbene non potessi neppure muovere le labbra. Mi accorsi che non respiravo più. Tuttavia c’era qualcosa che mi faceva respirare. Respirava per me, al ritmo del gong che non aveva nulla a che fare con il mio corpo; e io amavo quel ritmo, il modo in cui continuava all’infinito, e non dovevo più respirare né parlare né conoscere qualcosa…