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Mia madre mi sorrise. E io dissi: «Ti amo…» e lei disse: «Sì, sempre, sempre…» Ero seduto nella biblioteca del convento e avevo dodici anni e il monaco mi diceva «Un grande studioso», e io aprivo tutti i libri e potevo leggere tutto, il latino, il greco, il francese. Le lettere miniate erano di una bellezza indescrivibile, e io mi voltavo verso il pubblico del teatro di Renaud e vedevo tutti in piedi, e una donna si scostava dal viso il ventaglio dipinto, ed era Maria Antonietta. Disse «Uccisore di Lupi», e Nicolas corse verso di me, supplicandomi di tornare. Aveva il volto colmo d’angoscia, i capelli scomposti, gli occhi orlati di sangue. Cercò di afferrarmi. Io dissi: «Nicki, stammi lontano!» e mi resi conto, con una sofferenza concreta, che il suono del gong svaniva in lontananza.

Gridai. Implorai. Non smettere, ti prego, ti prego. Non voglio… non voglio… ti prego.

«Lelio, l’Uccisore di Lupi», disse l’essere. Mi teneva fra le braccia e io piangevo perché l’incantesimo si stava spezzando.

«No, no.»

Mi sentivo pesante. Avevo ricuperato il mio corpo, con i suoi dolori e le grida soffocate, e mi sentivo sollevare, scagliare verso l’alto… caddi sulla spalla dell’essere e sentii il suo braccio stringermi le ginocchia.

Volevo dire: Dio, proteggimi. Volevo dirlo con ogni particella del mio essere ma non potevo, e c’era di nuovo il vicolo sotto di me, il precipizio di centinaia di piedi, e tutta Parigi s’inclinava a un angolo spaventoso, nella neve e nel vento tagliente.

2.

Ero sveglio e avevo molta sete.

Desideravo bere in abbondanza un vino bianco freddissimo, come lo è quando lo si porta su dalla cantina in autunno. Volevo qualcosa di fresco e dolce da mangiare, come una mela matura.

Pensai che avevo perduto la ragione, anche se non avrei saputo dire il perché.

Aprii gli occhi e compresi che era sera. La luce avrebbe potuto essere quella del mattino, ma era trascorso troppo tempo perché fosse possibile. Era sera.

E, attraverso una larga finestra di pietra chiusa da una grata, vidi colline e boschi ammantati di neve, e in lontananza l’immensa e minuscola collezione di tetti e di torri che formava la città. Non l’avevo vista così dal giorno in cui ero arrivato con la diligenza. Chiusi gli occhi e la visione rimase, come se non avessi mai mosso le palpebre.

Ma non era una visione. Esisteva davvero. E nella stanza c’era abbastanza caldo, nonostante la finestra. C’era stato un fuoco acceso. Ne sentivo l’odore, ma s’era spento.

Mi sforzai di ragionare. Ma non potevo smettere di pensare al vino bianco e freddo e alle mele nel cestello. Vedevo le mele. Mi sentii cadere dai rami dell’albero e aspirai l’odore dell’erba appena tagliata, tutt’intorno a me.

La luce del sole era abbagliante sui campì verdi. Brillava sui capelli bruni di Nicolas e sulla lacca scura del violino. La musica saliva in nubi morbide e ondeggianti. E contro il cielo scorgevo i bastioni della casa di mio padre.

I bastioni.

Riaprii gli occhi.

E compresi che ero nella stanza di un’alta torre, a molte miglia da Parigi.

E proprio davanti a me, su un rozzo tavolino di legno, c’era una bottiglia di vino bianco freddo, esattamente come l’avevo sognata.

La guardai per molto tempo, guardai le gocce che la coprivano, e non riuscii a credere che fosse possibile tendere la mano per prenderla e bere.

Non avevo mai conosciuto una sete come quella che mi tormentava. Tutto il mio corpo era assetato. E io ero così debole. E sentivo un po’ di freddo.

La stanza si mosse quando io mi mossi. Il cielo brillava oltre la finestra.

E quando finalmente presi la bottiglia e tolsi il tappo e aspirai l’aroma asprigno e delizioso, bevvi e bevvi senza fermarmi, e senza curarmi di ciò che sarebbe stato di me, e di dov’ero, e della ragione per cui la bottiglia era lì.

Chinai la testa in avanti. La bottiglia era quasi vuota e la città lontana svaniva nel cielo nero, lasciandosi dietro un mare di luci.

Mi portai le mani alla testa.

Il letto dove avevo dormito era di pietra cosparsa di paglia. E a poco a poco cominciai a sospettare di trovarmi in una sorta di prigione.

Ma il vino. Era troppo buono per un carcere. Chi avrebbe dato a un prigioniero un vino simile, a meno che naturalmente il prigioniero stesse per venire giustiziato?

E poi mi giunse un altro profumo, intenso e così delizioso da strapparmi un gemito. Mi guardai intorno; o meglio dovrei dire che tentai di farlo perché ero quasi troppo debole per muovermi. Ma la fonte del profumo mi era vicina, ed era una grossa tazza di brodo di carne. Il brodo era denso e vi galleggiavano pezzetti di carne, e vedevo il vapore che s’innalzava. Era ancora caldo.

Presi la tazza con entrambe le mani e bevvi, avidamente e senza riflettere, come avevo bevuto il vino.

Era gradevole, come se non avessi mai conosciuto altro cibo che gli somigliasse, quella ricca essenza della carne: e quando la tazza fu vuota mi riabbandonai, sazio e quasi nauseato, sulla paglia.

Mi sembrò che qualcosa si muovesse nell’oscurità accanto a me. Ma non ero sicuro. Sentii un tintinnio di vetri.

«Un altro po’ di vino», disse la voce, e io la riconobbi.

A poco a poco incominciai a ricordare tutto. La scalata dei muri, il piccolo tetto quadrato, la sorridente faccia bianca.

Per un momento pensai: «Oh, è impossibile, dev’essere stato un incubo. Ma non era così. Era accaduto; e all’improvviso ricordavo l’estasi, il suono del gong, e mi sentivo cogliere dalla vertigine, come se stessi per perdere nuovamente i sensi».

Mi feci forza. Non potevo lasciare che accadesse. E la paura s’insinuò in me, al punto che non osai muovermi.

«Un altro po’ di vino», ripeté la voce.

Girai leggermente la testa e vidi un’altra bottiglia, ancora tappata e a mia disposizione, profilata contro il chiarore della finestra.

Fui riassalito dalla sete, ingigantita dal sapore salato del brodo. Mi asciugai le labbra, presi la bottiglia e bevvi ancora.

Mi riabbandonai contro il muro e mi sforzai di scrutare nell’oscurità. Avevo paura di ciò che avrei visto.

Naturalmente ero ormai ubriaco.

Vidi la finestra e la città, vidi il tavolino. E quando i miei occhi si spostarono lentamente sugli angoli più bui, vidi lui.

Non portava più il mantello nero con il cappuccio, e non stava in piedi o seduto come un uomo normale.

Era appoggiato, così sembrava, alla cornice di pietra della finestra, con un ginocchio un po’ piegato, l’altra gamba esile protesa dalla parte opposta. Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi.

Mi dava l’impressione di un essere inerte e privo di vita, tuttavia la faccia era animata come la notte precedente. I grandi occhi neri parevano tendere la pelle bianca in pieghe profonde, il naso era lungo e sottile, la bocca aveva quel sorriso buffonesco. C’erano le zanne che toccavano le labbra incolori, e i capelli, una massa splendente nera e argentea che spuntava dalla fronte alta e bianca e scendeva sulle spalle e sulle braccia.

Credo che ridesse.

Avevo trasceso il terrore. Non potevo neppure urlare.

Avevo lasciato cadere la bottiglia del vino che rotolava sul pavimento. E quando tentai di muovermi, di scuotermi dal torpore dell’ubriachezza, le sue membra esili si animarono.

Avanzò verso di me.

Non gridai. Proruppi in un sordo ruggito di terrore e di collera e lasciai il letto. Inciampai nel tavolino e fuggii.