Ma mi afferrò con le dita lunghe e bianche, potenti e fredde come la notte precedente.
«Lasciami, maledetto, maledetto, maledetto!» Balbettavo. La ragione mi suggeriva di supplicare, e tentai di farlo. «Me ne andrò. Ti prego. Lasciami andar via. Devi. Lasciami andare.»
Il viso scarno incombeva su di me. Le labbra erano contratte nelle guance bianche. Rideva, una risata sommessa e maligna che sembrava non finire mai. Lottai, lo spinsi invano, lo supplicai di nuovo, balbettai assurdità e scuse e poi gridai: «Dio, aiutami!» Mi coprì la bocca con una mano mostruosa.
«Non dire altro in mia presenza, Uccisore di Lupi, o ti darò in pasto ai lupi dell’inferno», disse con una smorfia irridente. «Uhmm? Rispondimi. Uhmmmm?»
Annuì. Allentò la stretta.
Per il momento la sua voce mi aveva calmato. Quando parlava, sembrava capace di ragionare. Sembrava quasi sofisticato.
Alzò le mani e mi accarezzò la testa mentre rabbrividivo.
«Il sole nei capelli», mormorò. «E il cielo azzurro fissato per sempre nei tuoi occhi.» Sembrava quasi assorto mentre mi guardava. Il suo alito e il suo corpo non avevano odore: il sentore di muffa veniva dagli indumenti.
Non osavo muovermi, sebbene non mi trattenesse. Fissai i suoi vestiti.
Una camicia di seta rovinata, con le maniche a sbuffo e l’arricciatura al collo. Calze e pantaloni corti e laceri.
Era vestito come usavano gli uomini alcuni secoli prima. Avevo visto abiti come il suo negli arazzi in casa mia, nei quadri del Caravaggio e di La Tour appesi nelle stanze di mia madre.
«Sei perfetto, mio Lelio, mio Uccisore di Lupi», mi disse. La bocca si allargò e io vidi di nuovo le zanne bianche. Erano i suoi soli denti.
Rabbrividii. Mi sentii cadere sul pavimento.
Ma mi sollevò facilmente con un braccio e mi adagiò sul letto.
Pregavo con il pensiero: Dio, aiutami, Vergine Maria, aiutami, aiutami, aiutami. E intanto lo guardavo in faccia.
Che cosa vedevo? Cosa avevo visto la notte precedente? La maschera della vecchiaia, ghignante, incisa profondamente dei segni del tempo e tuttavia raggelata, e dura come le sue mani. Non era un essere vivente. Era un mostro. Era un vampiro, un cadavere succhiatore di sangue uscito dalla tomba e dotato d’intelletto.
E i suoi arti… perché mi facevano inorridire? Sembrava umano, ma non si muoveva come un umano. Pareva che non facesse differenza, per lui, camminare o strisciare, stare curvo o in ginocchio. Mi riempiva di ribrezzo. Tuttavia mi affascinava. Dovevo ammetterlo. Mi affascinava. Ma il pericolo era troppo grande perché potessi tollerare quello stato d’animo.
Scoppiò in una risata profonda, con le ginocchia allargate, le dita posate sulla mia guancia mentre stava su di me come un grande arco.
«Sììììì, adorabile, non è piacevole guardarmi!» disse. La voce era ancora un bisbiglio e parlava in lunghi rantoli. «Ero già vecchio quando fui trasformato. E tu sei perfetto, mio Lelio dagli occhi azzurri, sei bello anche lontano dalle luci della ribalta.»
La lunga mano bianca giocò di nuovo con i miei capelli, sollevando le ciocche e lasciandole ricadere. Sospirò. «Non piangere, Uccisore di Lupi», disse. «Sei stato prescelto, e i tuoi piccoli trionfi nella Casa di Tespi non conteranno più nulla quando terminerà questa notte.»
Di nuovo quella risata.
Non avevo dubbi, almeno in quel momento, che fosse un emissario del diavolo, che Dio e il diavolo esistessero, che al di là dell’isolamento vissuto fino a poche ore prima vi fosse quel reame sterminato di esseri tenebrosi e di significati orribili, e che quel reame mi avesse inghiottito.
Pensai che venivo punito per la mia vita; ma mi sembrava assurdo. Milioni di individui, in tutto il mondo, credevano ciò che io credevo. Perché diavolo accadeva a me? Una possibilità macabra incominciò a prendere forma irresistibilmente… la possibilità che il mondo non avesse più significato di prima e che quello fosse soltanto un altro orrore…
«In nome di Dio, vattene!» gridai. Dovevo credere in Dio, adesso. Dovevo. Era l’unica speranza. Feci il segno della croce.
Per un momento mi fissò con gli occhi sbarrati per la rabbia. Poi rimase immobile.
Mi guardò mentre mi facevo il segno della croce. Mi ascoltò mentre invocavo Dio.
Si limitò a sorridere. La sua faccia era una perfetta maschera da commedia tratta dall’arco del proscenio.
Ebbi una crisi di pianto come un bambino. «Allora il diavolo regna in paradiso e il paradiso è l’inferno», gli dissi. «Oh, Dio, non mi abbandonare…» Invocai tutti i santi che avevo amato.
Mi colpì al viso, con forza. Caddi e quasi scivolai dal letto al pavimento. La stanza girò intorno a me. Mi salì alla bocca il sapore acido del vino.
Sentii di nuovo le sue dita sul collo.
«Sì, lotta, Uccisore di Lupi», diceva. «Non andare all’inferno senza combattere. Beffati di Dio.»
«Non mi faccio beffe di Dio!» protestai.
Mi attirò a sé.
Lottai con più forza di quanto avessi mai fatto in tutta la mia esistenza, persino contro i lupi. Lo percossi a pugni e calci e gli strappai i capelli. Ma era così potente che tanto sarebbe valso battermi contro i mostri animati di una cattedrale.
Continuò a sorridere.
Poi la faccia perse ogni espressione. Sembrò allungarsi. Le guance erano incavate, gli occhi spalancati e quasi assorti. Aprì la bocca. Il labbro inferiore si contrasse. Vidi le zanne.
«Maledetto, maledetto, maledetto!» Ruggivo, gridavo. E lui si avvicinò, affondò i denti.
Questa volta no, pensavo furiosamente, questa volta no. Non lo sentirò. Resisterò. Questa volta mi batterò per la mia anima.
Ma stava accadendo ancora.
La dolcezza e la morbidezza e il mondo lontano, e persino lui, nella sua bruttezza, erano stranamente al di fuori di me, come un insetto schiacciato sotto un vetro che non ci ispira ripugnanza perché non può toccarci; e così il suono del gong e il piacere squisito. E mi sentii completamente perduto. Ero incorporeo e il piacere era incorporeo. Io stesso non ero altro che piacere. Scivolai in una ragnatela di sogni radiosi.
Vidi una cripta, un luogo tetro. E un vampiro bianco che si svegliava in una tomba poco profonda. Era carico di catene, il vampiro; e sopra di lui si chinava il mostro che mi aveva rapito, e io sapevo che il suo nome era Magnus, e che in quel sogno era ancora mortale, era un alchimista grande e potente. Aveva dissotterrato e incatenato il vampiro dormiente poco prima dell’ora cruciale dell’imbrunire.
Ora, mentre la luce moriva nei cieli, Magnus beveva dal prigioniero immortale e impotente il sangue magico e maledetto che avrebbe fatto di lui uno dei morti viventi. Era un tradimento: il furto dell’immortalità. Un Prometeo tenebroso che rubava un fuoco luminescente. Risate nella tenebra. Risate che echeggiavano nella catacomba. Echeggiavano nei secoli. E il lezzo dell’avello. E l’estasi, assolutamente insondabile e irresistibile, che finalmente si concludeva.
Piangevo. Stavo abbandonato sulla paglia e dicevo: «Ti prego, non smettere…»
Magnus non mi teneva più: il mio respiro era ridiventato mio, e i sogni si erano dissolti. Precipitai e precipitai mentre le stelle ascendevano, gemme fissate a un cupo velo di porpora. «Ingegnoso… avevo creduto che il cielo fosse… vero.»
La fredda aria invernale si muoveva un poco nella stanza. Sentivo le lacrime sul mio viso. Ero divorato dalla sete.
E lontano, lontano da me, Magnus mi guardava con le mani abbandonate lungo le gambe magre.
Tentai di muovermi. Avevo sete. Tutto il mio corpo aveva sete.
«Stai morendo, Uccisore di Lupi», disse Magnus. «La luce si spegnerà nei tuoi occhi azzurri come se tutti i giorni dell’estate fossero finiti…»