«No, ti prego.» La sete era insopportabile. Avevo la bocca aperta, la schiena inarcata. E finalmente era giunto, l’ultimo orrore, la morte.
«Chiedi, figlio», disse. La faccia non era più la maschera ghignante: era trasfigurata dalla compassione. Sembrava quasi umana, e di una vecchiezza quasi naturale. «Chiedi e riceverai», disse.
Vidi l’acqua scorrere nei ruscelli di montagna della mia infanzia. «Aiutami. Ti prego.»
«Ti darò l’acqua di tutte le acque», mi disse all’orecchio. Mi sembrò che non fosse affatto bianco. Era semplicemente un vecchio seduto accanto a me. La sua faccia era umana e quasi triste.
Ma quando guardai il suo sorriso e le sue sopracciglia grigie inarcate, compresi che non era vero. Non era umano. Era lo stesso mostro antico: ma era sazio del mio sangue.
«Il vino di tutti i vini», mormorò. «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.» Mi cinse con le braccia, mi attirò vicino, e io sentii un grande calore che emanava da lui. Sembrava colmo non di sangue, ma di amore per me.
«Chiedi, Uccisore di Lupi, e vivrai per sempre», disse. Ma la sua voce era stanca e bassa, e c’era qualcosa di distante e tragico nel suo sguardo.
Sentii la mia testa girarsi. Il mio corpo era una cosa pesante e umida che non potevo dominare. Non chiederò, morirò senza chiedere… e la grande disperazione che tanto temevo stava davanti a me, il vuoto che era la morte, e continuavo a dire «no». Dissi «no» con orrore. Non mi sarei piegato, al caos e all’orrore. Dissi «no».
«La vita eterna», mormorò.
Gli abbandonai la testa sulla spalla.
«Ostinato Uccisore di Lupi.» Le sue labbra mi toccarono. Il suo alito caldo e inodore mi sfiorò il collo.
«Non sono ostinato», mormorai. La mia voce era debolissima e mi chiedevo se poteva udirmi. «Coraggioso. Non ostinato.» Mi sembrava inutile non dirlo. Cosa contava la vanità, ormai? Esisteva ancora qualcosa? E ostinato era una parola così banale, così crudele…
Mi sollevò la faccia e, tenendomi stretto con la destra, alzò la mano sinistra e si kcerò la gola con le unghie.
Mi piegai in due per l’orrore, convulsamente. Ma mi accostò la faccia alla ferita e disse: «Bevi».
Sentii il mio urlo assordante. E il sangue che scorreva dalla lacerazione toccò le mie labbra aride e screpolate.
La sete sembrava sibilare. Leccai il sangue. E una grande sferzata di sensazioni mi investì. La mia bocca si aprì, si chiuse sulla ferita. Attinsi con tutte le mie forze alla grande fonte che avrebbe soddisfatto la mia sete, lo sapevo, come mai era stata soddisfatta.
Sangue e sangue e sangue. E non era soltanto il sibilo della sete, quello che veniva placato e dissolto; erano tutti i miei desideri, tutti i miei desideri e l’infelicità e gli appetiti.
Allargai la bocca e la premetti. Sentii il sangue scorrermi in gola. Sentii la sua testa contro di me. Sentii la stretta ferma delle sue braccia.
Ero avvinto a lui e sentivo i muscoli, le ossa, il contorno delle mani. Conoscevo il suo corpo. Eppure c’era un torpore che s’insinuava in me, e un fremito estatico di sensazioni che penetrava in quel torpore e ingigantiva, diventava più pieno e più intenso, e io potevo quasi vedere ciò che sentivo.
Ma la parte suprema continuava a essere il sangue dolce e ricco che mi saziava mentre bevevo e bevevo.
Ancora, ancora: non pensavo ad altro, se pure pensavo. E, sebbene fosse denso, era come una luce che entrava in me, tanto appariva fulgido alla mente e abbagliante, quel flusso rosso, e tutti i desideri disperati della mia vita venivano saziati mille volte.
Ma il corpo di Magnus, l’impalcatura cui mi aggrappavo, si andava indebolendo. Sentivo il suo respiro rantolare debolmente. Tuttavia non mi disse di smettere.
Ti amo, avrei voluto dire. Magnus, mio signore ultraterreno, per quanto tu sia ripugnante, io ti amo, ti amo: questo è ciò che ho sempre desiderato e non ho mai potuto avere, questo, e tu me l’hai dato!
Sentivo che sarei morto se fosse continuato; eppure continuava e io non morivo.
Ma all’improvviso sentii le mani affettuose che mi accarezzavano le spalle. Con la sua forza incalcolabile mi scostò.
Gettai un lungo grido doloroso, Magnus mi stava facendo alzare in piedi. Mi teneva ancora fra le braccia.
Mi portò alla finestra e io guardai fuori, con le mani appoggiate alla pietra. Tremavo, e il sangue mi pulsava nelle vene. Appoggiai la fronte alla sbarra di ferro.
Lontano lontano, sotto di me, c’era la vetta scura di una collina, coperta di alberi che,sembravano tremolare nella luce fioca delle stelle.
E più oltre, la città tempestata di piccole luci sprofondava non già nel buio ma in una tenue nebbia violetta. La neve era luminescente e si scioglieva. I tetti, le torri, i muri avevano mille sfaccettature lavanda, malva, rosa.
Era la grande metropoli.
Socchiusi le palpebre e vidi un milione di finestre, come altrettante proiezioni di raggi di luce; e poi, come se non bastasse, scorsi il movimento inconfondibile della gente. Minuscoli mortali nelle vie minuscole, teste e mani che si toccavano nell’ombra, un uomo solitario, nulla più di un puntolino, che saliva su un campanile investito dal vento. Un milione di anime sulla superficie infiocchettata della notte, e nell’aria giungeva il vago mescolarsi di innumerevoli voci umane. Grida, canti, lievi accenni di musica, il rintocco smorzato delle campane.
Gemetti. La brezza parve sollevarmi i capelli, e sentii la mia voce piangere come non l’avevo mai udita.
La città si offuscò. L’abbandonai, i suoi milioni di abitanti si persero nuovamente nel gioco meraviglioso delle ombre lillà e della luce morente.
«Oh, che cosa hai fatto, che cosa mi hai dato!» bisbigliai.
Sembrava che le mie parole non si arrestassero una dopo l’altra, ma confluissero fino a far diventare il mio grido un unico suono coerente che amplificava alla perfezione il mio orrore e la mia gioia.
Se c’era un Dio, non aveva più importanza. Faceva parte di un reame opaco e squallido i cui segreti erano stati saccheggiati da molto tempo, le cui luci si erano spente. Quello era il centro palpitante della vita, intorno al quale orbitava ogni complessità. Ah, il fascino di quella complessità, il senso di essere presente…
Dietro di me, lo scalpiccio dei piedi del mostro sulle pietre.
E quando mi voltai lo vidi bianco ed esangue, come il guscio disseccato di se stesso. Gli occhi erano macchiati di lacrime rosse come il sangue. Tese le mani verso di me come se soffrisse.
Lo strinsi al petto. Provavo per lui un amore quale non avevo mai conosciuto.
«Ah, non capisci?» disse la voce terribile dalle parole protratte come sussurri senza fine. «O mio erede, prescelto per prendere da me il Dono Tenebroso con più fibra e coraggio di dieci mortali, che Figlio della Tenebra sarai!»
Gli baciai le palpebre. Passai le mani sui morbidi capelli neri. Per me, adesso, non era una creatura orribile, ma semplicemente qualcosa di strano e pallido, custode di una lezione più profonda, forse, degli alberi che stormivano laggiù e della città baluginante che mi chiamava da miglia e miglia di distanza.
Le guance infossate, il collo lungo, le gambe esili… erano solo le parti naturali di lui.
«No, aquilotto», sospirò. «Serba i tuoi baci per il mondo. Il mio momento è venuto e tu mi devi obbedire una sola volta. Seguimi.»
3.
Mi attirò giù per una scala tortuosa. E tutto ciò che vedevo mi assorbiva. Le pietre rozzamente intagliate sembravano irradiare una luce propria e persino i ratti che sfrecciavano nel buio avevano una bizzarra bellezza.
Poi aprì una porta massiccia di legno borchiata di ferro, mi porse il pesante mazzo di chiavi e mi condusse in una grande camera spoglia. «Ora sei il mio erede, come ti ho detto. Prenderai possesso di questa casa e del mio tesoro. Ma prima farai ciò che ti dirò.»