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Ma continuai a gridare. Caddi in ginocchio coprendomi gli occhi con le mani. Ma da dietro le palpebre chiuse continuai a vedere un’esplosione di scintille dopo l’altra, fino a quando premetti la fronte sulle pietre.

4.

Mi parve di restare a giacere sul pavimento per anni a guardare il fuoco che si consumava.

La camera s’era raffreddata. L’aria gelida entrava dalla finestra aperta. Piansi a lungo. I miei singhiozzi mi riecheggiarono nelle orecchie fino a quando sentii di non poterne più sopportare il suono. E non era un conforto sapere che ogni cosa era ingigantita in quello stato, persino la mia infelicità.

Ogni tanto pregavo. Invocavo perdono, anche se non avrei saputo dire per che cosa lo chiedevo. Pregavo la Madonna e i santi. Mormoravo le Avemaria fino a quando diventavano una cantilena priva di significato.

E le mie lacrime erano sangue, e lasciavano macchie sulle mie mani quando mi asciugavo il viso.

Poi restai disteso sulle pietre. Non mormoravo più preghiere, ma quelle suppliche inarticolate che rivolgiamo a tutto ciò che è potente, a tutto ciò che è sacro, che può forse esistere con qualunque nome. Non lasciarmi qui solo. Non mi abbandonare. Sono nel luogo delle streghe. È il luogo delle streghe. Non permettere che precipiti ancora più in basso di quanto sia precipitato questa notte. Non permettere che avvenga… Lestat, svegliati.

Ma mi tornavano alla mente le parole di Magnus: In cerca dell’inferno, se esiste l’inferno… Se c’è un Principe delle Tenebre…

Finalmente mi sollevai sulle mani e sulle ginocchia. Mi sentivo stordito, pazzo, quasi in preda alle vertigini. Guardai il fuoco e vidi che avrei potuto ancora riattizzarlo e buttarmi tra le fiamme.

Ma mentre m’imponevo di immaginarne la sofferenza, compresi che non intendevo farlo.

Perché avrei dovuto, dopotutto? Che avevo fatto per meritare la sorte delle streghe? Non volevo andare all’inferno neppure per un momento. Non intendevo andarvi solo per sputare in faccia al Principe delle Tenebre, chiunque fosse.

Al contrario: se ero un essere dannato, allora che quel figlio d’un cane venisse a prendermi, e mi dicesse perché dovevo soffrire. Mi sarebbe piaciuto saperlo, davvero.

In quanto all’oblio, ecco, possiamo aspettare un poco. Possiamo pensarci per qualche tempo.

Una calma sconosciuta si insinuò lentamente in me. Ero cupo, colmo di amarezza e mi sentivo sempre più affascinato.

Non ero più umano.

E, mentre stavo acquattato a pensarci e guardavo le braci agonizzanti, una forza immensa cresceva dentro di me. A poco a poco i singhiozzi fanciulleschi cessarono. Cominciai a studiare il biancore della mia pelle, i due canini appuntiti, le unghie che brillavano nel buio come fossero laccate.

Tutti i doloretti abituali erano spariti dal mio corpo. E il calore che ancora giungeva dalla legna fumante era piacevole, come un drappo avvolto intorno a me.

Il tempo passava; e tuttavia non passava.

Ogni cambiamento nel moto dell’aria era carezzevole. E quando giungeva dalla città lievemente illuminata un coro di campane che suonavano l’ora, non segnava il trascorrere del tempo mortale. C’era soltanto la musica purissima e io giacevo stordito, con la bocca aperta, a guardare le nubi che passavano.

Ma incominciai a sentire nel petto un dolore nuovo, rovente e capriccioso.

Mi scorreva nelle vene, mi serrava la testa, e poi sembrava raccogliersi nelle mie viscere. Socchiusi gli occhi. Inclinai la testa. Mi resi conto che non avevo paura di quella sofferenza: mi sentivo, piuttosto, come se l’ascoltassi.

E ne compresi la causa. I miei escrementi mi lasciavano sotto forma di un piccolo torrente. Non riuscivo a controllarlo. Tuttavia, mentre guardavo quel viscidume immondo che mi macchiava gli abiti, non mi disgustava.

I ratti che si muovevano nella camera e si avvicinavano alla sozzura con le minuscole zampette silenziose… neppure i ratti mi disgustavano.

Non potevano toccarmi neppure mentre mi camminavano addosso per divorare i rifiuti.

Non riuscivo a immaginare nulla, nella tenebra, neppure gli insetti viscidi della tomba, che potesse ispirarmi repulsione. Potevano strisciarmi sulle mani e sulla faccia. Non aveva importanza.

Non facevo parte del mondo che rabbrividiva di quelle cose. E con un sorriso mi resi conto che facevo parte della stirpe tenebrosa, la stirpe che fa tremare gli altri. Risi, lentamente e con il più grande piacere.

Eppure la sofferenza non mi aveva abbandonato completamente. Indugiava come un’idea, e quell’idea racchiudeva una pura verità.

Sono morto. Sono un vampiro. Tante cose morranno perché io possa vivere; berrò il loro sangue per poter vivere. E non vedrò mai più, mai più Nicolas e mia madre, e gli umani che ho conosciuto e amato, e altri della mia famiglia umana. Berrò sangue. E vivrò in eterno. È esattamente ciò che accadrà. E ciò che accadrà sta incominciando: è appena nato! E il travaglio che l’ha prodotto è stato un’estasi quale non ho mai conosciuto.

Mi alzai. Mi sentivo leggero e forte, e stranamente intorpidito. Mi accostai al fuoco spento e camminai tra le braci consunte.

Non c’erano ossa. Era come se il demonio si fosse disintegrato. Le ceneri che potei raccogliere nelle mani, le portai alla finestra. E quando il vento le afferrò, mormorai un addio a Magnus domandandomi se poteva ancora udirmi. Finalmente restarono soltanto i ceppi bruciati e la fuliggine che mi scossi dalle mani, nell’oscurità. Era venuto il momento di esaminare la camera interna.

5.

Far uscire la pietra fu facile, come avevo avuto modo di constatare. All’interno c’era un gancio che mi avrebbe permesso di richiuderla dietro di me.

Ma per infilarmi nello stretto varco buio dovevo mettermi bocconi. E, quando mi inginocchiai e guardai, non scorsi in fondo neppure un barlume di luce. Non mi piaceva.

Sapevo che se fossi stato ancora mortale, nulla avrebbe potuto indurmi a strisciare in un passaggio come quello.

Ma il vecchio vampiro mi aveva detto chiaramente che il sole poteva annientarmi come il fuoco. Dovevo entrare nella bara. E sentii la paura che tornava a travolgermi come un diluvio.

Mi stesi sul pavimento e strisciai a mo’ di lucertola nel passaggio. Come avevo temuto, non potevo alzare la testa. Non c’era spazio per voltarmi e tirare il gancio. Dovetti infilare il piede in quest’ultimo e trascinarmi avanti, per chiudere la pietra.

Tenebra totale. E c’era appena lo spazio per sollevarmi di qualche pollice sui gomiti.

Soffocai un’esclamazione. La paura ingigantì e quasi sentii di impazzire, pensando che non potevo alzare la testa. Alla fine sbattei contro la pietra e rimasi immobile a gemere.

Ma cosa dovevo fare? Dovevo raggiungere la bara.

Perciò dissi a me stesso di non piagnucolare più e strisciai più in fretta. Il suolo mi scalfiva le ginocchia. Le mie mani cercavano crepe e incrinature per usarle come appigli. Avevo il collo indolenzito mentre mi sforzavo di non alzare la testa in preda al panico.

E quando all’improvviso la mia mano sentì la pietra davanti a me, la spinsi con tutte le mie forze. La sentii muovere mentre appariva una luce pallida.

Uscii dal passaggio e mi trovai in una stanzetta.

Il soffitto era basso, curvo, e la finestra era stretta, con le solite sbarre. Ma la luce dolce e violacea della notte rivelava un grande camino nella parete di fronte, la legna pronta da accendere e accanto, sotto la finestra, un antico sarcofago di pietra,

Sul sarcofago stava il mantello foderato di pelliccia. E su una rozza panca vidi uno splendido abito di velluto rosso ricamato d’oro e con una quantità di pizzi italiani, e brache di seta rossa e calze di seta bianca e scarpe con il tacco vermiglio.