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Mi scostai i capelli dal viso, mi asciugai il rivolo di sudore dal labbro e dalla fronte. Il sudore era insanguinato; e quando lo vidi sulle mie mani provai una bizzarra eccitazione.

Ah, che cosa sono? pensai. E che cosa mi attende? Per un lungo momento guardai il sangue e mi leccai le dita. Un piacere delizioso, esaltante, mi pervase. Passò un momento prima che mi riprendessi quanto bastava per avvicinarmi al camino.

Presi due legnetti come aveva fatto il vecchio vampiro, li strofinai in fretta e con forza, e li vidi quasi sparire quando ne scaturì una fiamma. Non era una magia, ma solo questione di abilità. E mentre il fuoco mi riscaldava, mi tolsi gli indumenti sporchi; con la camicia asciugai fino all’ultima traccia di sozzura, e buttai tutto nel fuoco prima di mettere gli abiti nuovi.

Rosso, rosso abbagliante. Neppure Nicolas aveva posseduto capi come quelli. Erano fatti per la corte di Versailles, con perle e piccoli rubini inclusi nel ricamo. Il pizzo della camicia era Valenciennes, e io l’avevo visto solo nell’abito da sposa di mia madre.

Misi sulle spalle il mantello foderato di pelli di lupo. E, sebbene il gelo bianco avesse abbandonato le mie membra, mi sentivo come se fossi scolpito nel ghiaccio. Il mio sorriso era duro e scintillante, stranamente lento, mentre toccavo e guardavo gli indumenti.

Alla luce del fuoco, guardai il sarcofago. Sul coperchio pesante era scolpita l’effìgie di un vecchio, e compresi subito che era Magnus.

Ma lì giaceva sereno, con la bocca da buffone chiusa, gli occhi che fissavano miti il soffitto, i capelli disposti in una criniera ordinata di onde e riccioletti.

Sicuramente risaliva a tre secoli prima. Giaceva con le mani incrociate sul petto, avvolto in lunghe vesti, e qualcuno aveva spezzato l’impugnatura e una parte del fodero della spada scolpita nella pietra.

Restai a fissarla per un tempo interminabile. Vedevo che era stata scalpellata con estremo sforzo.

Forse qualcuno aveva cercato di rimuovere la forma della croce? La tracciai con il dito. Non accadde nulla, naturalmente, come non era accaduto nulla quando avevo mormorato tutte quelle preghiere. Mi accosciai accanto al sarcofago e tracciai una croce nella polvere.

Non accadde nulla neppure questa volta.

Poi aggiunsi alcuni tratti per indicare il corpo di Cristo, le braccia, le ginocchia, la testa china. Scrissi «Nostro Signore Gesù Cristo», le sole parole che sapevo scrivere bene a parte il mio nome; e anche stavolta non accadde nulla.

Continuai a guardare, irrequieto, le parole e il piccolo crocifìsso, e cercai di sollevare il coperchio.

Nonostante la mia nuova forma, non fu facile. E nessun mortale avrebbe potuto riuscire da solo.

Ma a sconcertarmi era la difficoltà. Non avevo una forza illimitata. E non avevo certo quella del vecchio vampiro. Forse possedevo la forza di tre uomini o quattro: era impossibile fare un calcolo.

Al momento mi sembrava terribilmente impressionante.

Guardai nel sarcofago. Era uno spazio stretto, pieno d’ombre, e non potevo immaginare di giacere lì dentro. C’era una scritta in latino scolpita intorno al bordo, e non sapevo leggerla.

Quel pensiero mi tormentava. Avrei voluto che le parole non ci fossero; la nostalgia per Magnus e la mia impotenza minacciavano di travolgermi. Lo odiavo perché mi aveva abbandonato! E mi colpì, con violenza ironica, la certezza di aver provato amore per lui prima che si gettasse nel fuoco. Avevo provato amore per lui quando avevo visto gli indumenti rossi.

I demoni si amano scambievolmente? Passeggiano abbracciati nell’inferno dicendo «Ah, tu sei mio amico, quanto ti amo», e cose del genere? Era un interrogativo accademico, dato che non credevo nell’inferno. Ma era solo questione di una concezione del male, no? Tutte le creature dell’inferno dovrebbero odiarsi, come tutti coloro che sono salvati odiano i dannati, senza riserve.

L’avevo saputo da sempre. L’idea mi aveva terrorizzato fin da quand’ero bambino: che io avrei potuto andare in paradiso e mia madre sarebbe potuta finire all’inferno sicché avrei dovuto odiarla. Non potevo odiarla. E se fossimo finiti all’inferno insieme?

Bene, ora so, indipendentemente dal fatto che io creda o no nell’inferno, che tra i vampiri può esistere l’amore, e che pur essendo dediti al male non si smette di amare. O almeno così mi parve per quel breve istante. Ma non potevo ricominciare a piangere. Non sopportavo tutti quei pianti.

Girai lo sguardo verso una grande cassapanca di legno parzialmente nascosta dal sarcofago. Non era chiusa a chiave. Il coperchio marcio cadde quasi dai cardini quando l’aprii.

E, sebbene il mio vecchio maestro avesse detto che mi lasciava il suo tesoro, rimasi sbalordito da ciò che vidi. La cassapanca traboccava di gemme, oro e argento. C’erano innumerevoli anelli con pietre preziose, collane di diamanti, fili di perle, piatti e monete e centinaia e centinaia di oggetti di gran pregio.

Passai lievemente le dita su quel mucchio e poi vi affondai le mani, soffocando un’esclamazione quando la luce fece sfolgorare il rosso dei rubini e il verde degli smeraldi. Vedevo rifrazioni di colori che non avevo mai sognato, e una ricchezza incalcolabile. Era il favoloso scrigno dei pirati dei Caraibi, il leggendario riscatto d’un re.

E adesso era mio.

L’esaminai più attentamente. C’erano sparsi anche oggetti personali e deperibili. Maschere di raso imputridite e orlate d’oro, fazzoletti di trine e pezzi di stoffa cui erano fissate spille e broches. C’era un pezzo di finimento in pelle ornato di campanelli d’oro, una trina muffita infilata in un anello, dozzine di tabacchiere, medaglioni con nastri di velluto.

Magnus aveva preso tutto alle sue vittime?

Sollevai una spada incrostata di gemme, troppo pesante per quei tempi, e una scarpa lisa, forse conservata per la fibbia di strass.

Naturalmente aveva preso ciò che voleva. Tuttavia aveva indossato quei cenci, quel costume sbrindellato di un’altra epoca, e aveva vissuto lì come un eremita avrebbe potuto vivere in un secolo precedente. Non capivo.

Ma nel tesoro c’erano altri oggetti. Rosari di gemme splendide, che conservavano ancora i crocifissi! Toccai le piccole immagini sacre. Scossi la testa e mi morsi le labbra come per dire: È tremendo che li abbia rubati! Ma era anche divertente. Ed era una prova in più del fatto che Dio non aveva alcun potere su di me.

E mentre riflettevo e cercavo di comprendere se era davvero tutto fortuito come sembrava al momento, sollevai uno specchio squisito dal manico di perle.

Lo guardai, quasi inconsciamente, come capita spesso di guardare gli specchi. E mi vidi, come poteva aspettarsi un uomo: ma la mia pelle era bianchissima come lo era stata quella del vecchio demonio, e i miei occhi avevano assunto una sfumatura tra il violetto e il cobalto, dall’iridescenza sommessa. I miei capelli erano lustri, e quando vi passai le dita, vi sentii una vitalità strana e nuova.

Nello specchio non vedevo Lestat, bensì una sua copia fatta di altre sostanze. E le poche rughe che il tempo mi aveva dato all’età di vent’anni erano sparite o s’erano semplificate diventando poco più profonde di prima.

Fissai la mia immagine riflessa. Divenni smanioso di scoprirvi me stesso. Mi massaggiai il viso, strofinai persino lo specchio e strinsi le labbra per non piangere.

Finalmente chiusi gli occhi e li riaprii, e sorrisi dolcemente a quell’essere. L’essere ricambiò il sorriso. Era Lestat, davvero. E nel suo viso non c’era nulla di malevolo. Be’, non molto malevolo. Solo la malizia di un tempo, la stessa impulsività. Avrebbe potuto essere un angelo; ma quando piangeva le lacrime erano rosse, e l’intera immagine si colorava di rosso. E aveva quei denti maligni che poteva premere contro il labbro inferiore quando sorrideva, e che lo facevano apparire terrificante. Un volto piuttosto buono con qualcosa che stonava orribilmente, orribilmente.