Me lo accostai alle labbra. Lacerai l’arteria gonfia del collo. Il sangue mi sprizzò contro il palato. Proruppi in un grido mentre lo stringevo contro di me. Non era fluido bruciante come il sangue del padrone e neppure l’elisir delizioso che avevo bevuto sulle pietre della segreta. No, quello era come luce trasformata in liquido. Era mille volte più concreto, e aveva il sapore del cuore umano che lo pompava, era l’essenza di quell’odore caldo e quasi fumoso.
Sentivo le mie spalle sollevarsi, le mie dita affondare di più nella sua carne, il suono simile a un mormorio che usciva dalla mia gola. Non avevo altre visioni che quella di una minuscola anima rantolante; un mancamento così potente che lui non vi aveva parte.
Fu facendo appello a tutta la mia volontà che, prima del momento finale, lo respinsi a forza. Come avrei voluto sentire il suo cuore che si arrestava. Come avrei desiderato sentire i battiti che rallentavano e cessavano, e sapere che lo possedevo!
Ma non osavo.
L’uomo mi scivolò pesantemente dalle braccia, e cadde sulle pietre. Il bianco degli occhi era visibile sotto le palpebre socchiuse.
Ero incapace di staccarmi dalla sua morte. Ero silenziosamente affascinato. Non doveva sfuggirmi il minimo dettaglio. Sentii il respiro cessare, vidi il corpo rilassarsi senza lotta nella morte.
Il sangue mi riscaldò. Lo sentii pulsare nelle vene. Il mio viso era di nuovo caldo contro i palmi delle mani, e la vista era divenuta acuta e potente. Mi sentivo dotato di una forza inimmaginabile.
Sollevai il cadavere, lo trascinai giù per le scale a chiocciola della torre, nella fetida segreta, e lo gettai a marcire con gli altri.
8.
Era tempo di andare, tempo di mettere alla prova i miei poteri.
Riempii la borsa e le tasche con tutto il denaro che potevano contenere, e cinsi una spada ingemmata e di modello non troppo antico; quindi scesi e chiusi dietro di me la porta di ferro della torre.
Evidentemente la torre era tutto ciò che restava di una casa andata in rovina. Ma captai nel vento un odore di cavalli, un odore forte e piacevole, e lo captai forse nel modo in cui l’avrebbe percepito un animale. In silenzio aggirai la costruzione e mi diressi verso una scuderia improvvisata.
Lì non c’era soltanto una vecchia carrozza molto bella, ma anche quattro magnifiche cavalle nere. Era straordinario: non avevano paura di me. Baciai i loro fianchi levigati e i musi vellutati. Ero così innamorato di esse che avrei potuto trascorrere ore e ore apprendendo il più possibile sul loro conto per mezzo dei miei sensi nuovi. Ma c’erano altre cose che mi attiravano.
Nella scuderia c’era anche un umano: avevo fiutato pure il suo odore appena ero entrato. Ma dormiva profondamente; e quando lo svegliai vidi che era un ragazzo semideficiente che per me non rappresentava un pericolo.
«Adesso il tuo padrone sono io», dissi mentre gli allungavo una moneta d’oro. «Stanotte, comunque, non avrò bisogno di te. Basterà che mi selli un cavallo.»
Mi capì quanto bastava per dirmi che nella scuderia non c’erano selle. Poi si riaddormentò.
Pazienza. Tagliai le lunghe redini da carrozza, le misi personalmente alla cavalla più bella e me ne andai cavalcando a pelo.
Non so dirvi che cosa provavo… il movimento della cavalla sotto di me, il vento gelido, e la volta altissima del cielo notturno. Il mio corpo sembrava fuso a quello dell’animale. Volavo sulla neve e ogni tanto ridevo e cantavo. Raggiungevo note altissime che prima erano state per me impossibili, quindi precipitavo in una ricca tonalità baritonale. A volte mi limitavo a gridare, pervaso da qualcosa che era simile alla gioia. Doveva essere gioia. Ma un mostro poteva conoscere la gioia?
Naturalmente volevo correre a Parigi. Ma sapevo di non essere pronto. Perciò mi avviai nella direzione opposta fino a quando giunsi alla periferia di un villaggio.
Non c’era in giro neppure un essere vivente; e, mentre mi avvicinavo alla chiesetta, sentii una rabbiosa impulsività umana che affiorava dalla mia strana e radiosa felicità.
Smontai in fretta e provai ad aprire la porta della sacrestia. La serratura cedette, e attraversai la navata per arrivare alla balaustra della comunione.
Non so che cosa provai in quel momento. Forse volevo che succedesse qualcosa. Mi sentivo dominato da istinti omicidi. E il fulmine non mi colpiva. Guardavo la luce rossa dei lumini accesi sull’altare. Guardavo le figure cristallinizzate nella tenebra dei vetri istoriati.
Preso dalla disperazione, andai a posare le mani sul tabernacolo. Aprii gli sportelli, e misi le mani all’interno, estrassi il ciborio ingemmato con le ostie consacrate. No, non c’era nessun potere, lì, nulla che io potessi sentire o vedere o conoscere con i miei sensi mostruosi, non c’era nulla che reagisse a me. C’erano le ostie e l’oro, la cera e la luce.
Appoggiai la testa all’altare. Dovevo somigliare al prete durante la messa. Richiusi tutto nel tabernacolo. Lo richiusi con cura, in modo che nessuno potesse accorgersi del sacrilegio commesso.
Poi percorsi un lato della chiesa, e ritornai dall’altro, e i quadri lividi e le statue mi affascinarono. Mi accorsi che vedevo il processo mentale dello scultore e del pittore e non soltanto il miracolo creativo. Vedevo il modo in cui la lacca rifletteva la luce. Vedevo i piccoli errori di prospettiva, e lampi di espressività inaspettata.
Come appariranno ai miei occhi i grandi maestri? pensavo. Mi sorprendevo a osservare anche i fregi più semplici affrescati sui muri. Poi m’inginocchiai a studiare le venature del marmo, e mi accorsi che ero disteso e fissavo a occhi sgranati il pavimento sotto il mio naso.
La situazione mi stava sfuggendo di mano. Mi rialzai un po’ rabbrividendo e un po’ piangendo, e guardai le candele come se fossero vive e mi sentii lievemente nauseato.
Era venuto il momento di lasciare la chiesa e di andare nel villaggio.
Rimasi nel villaggio quasi due ore, e per gran parte di quel tempo nessuno mi vide e nessuno mi udì.
Scoprii che era di una facilità assurda scavalcare i muri dei giardini, balzare da terra ai tetti bassi. Potevo lanciarmi dall’alto di tre piani e arrampicarmi sulla facciata di un edificio affondando le unghie e le punte dei piedi nella calce fra le pietre.
Sbirciavo dalle finestre. Vedevo coppie addormentate nei letti ornati di balze, infanti nelle culle, vecchie che cucivano in una luce fioca.
E mi sembravano tutte case di bambola, nella loro compiutezza. Perfette collezioni di giocattoli, con le seggiolette graziose e le lucide mensole dei camini, le tende rammendate con cura e i pavimenti ben puliti.
Vedevo tutto ciò come qualcuno che non aveva mai partecipato a quella vita, e osservavo con tenerezza i dettagli più semplici. Un grembiule inamidato appeso a un gancio, un paio di stivali sciupati sul focolare, una caraffa accanto a un letto.
E la gente. Oh, la gente era meravigliosa.
Naturalmente ne sentivo gli odori; ma ero sazio e non mi rendevano smanioso. M’intenerivo, piuttosto, per la loro pelle rosea e le membra delicate, la precisione con cui si muovevano, l’intero processo delie loro vite come se non fossi mai stato uno di loro. Mi sembrava straordinario che avessero cinque dita per ogni mano. Sbadigliavano, piangevano, si muovevano nel sonno. Ero affascinato.
E, quando parlavano, neppure i muri più spessi mi impedivano di udire le loro parole.
Ma l’aspetto più sorprendente delle miei esplorazioni era che udivo i pensieri di quelle persone, come avevo udito il servitore malvagio che avevo ucciso. Infelicità, tristezza, attese. Erano correnti nell’aria, alcune deboli, altre spaventosamente forti; e altre ancora erano soltanto barbagli, svaniti prima che ne individuassi la fonte.
Ma a stretto rigore non potevo leggere nelle menti.