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Quasi tutti i pensieri banali mi erano nascosti; e, quando piombavo nelle mie considerazioni, anche le passioni più forti non riuscivano a interferire. Tutto sommato, era una sensazione intensa che mi portava i pensieri e solo quando desideravo riceverli; e c’erano alcune menti che anche nell’ardore della collera non mi comunicavano nulla.

Queste scoperte mi sconvolgevano e quasi mi ferivano, come avveniva per la comune bellezza dovunque volgessi lo sguardo, lo splendore della normalità. Ma sapevo bene che vi era un abisso, più oltre, nel quale potevo precipitare all’improvviso e irreparabilmente.

Dopotutto, io non ero uno di quei miracoli caldi e palpitanti fatti di complessità e d’innocenza. No, quelli erano le vittime.

Era tempo di lasciare il villaggio. Avevo appreso abbastanza. Ma, prima di andarmene, compii un ultimo atto di ardimento. Non seppi trattenermi. Dovevo farlo assolutamente.

Rialzai il colletto del mantello rosso ed entrai nella locanda; cercai un angolo lontano dal fuoco e ordinai un bicchiere di vino. Tutti i presenti mi guardarono, ma non perché capissero che tra loro c’era un essere sovrannaturale. Guardavano semplicemente il gentiluomo vestito con tanto sfarzo. Rimasi per venti minuti, per averne la riprova. Nessuno, neppure l’uomo che mi serviva, notò niente! Naturalmente non toccai il vino. Mi bastò fiutarlo per capire che il mio corpo non poteva tollerarlo. Ma l’importante era che potevo ingannare i mortali! Potevo muovermi in mezzo a loro!

Quando lasciai la locanda, ero giubilante. Non appena arrivai al bosco, cominciai a correre, a correre così forte che il cielo e gli alberi divennero una macchia confusa. Volavo, quasi.

Poi mi fermai, spiccai salti, danzai. Raccattai qualche sasso e lo lanciai così lontano che non lo vidi ricadere. E quando trovai il ramo caduto da un albero, robusto e gonfio di linfa, lo presi e lo spezzai sul ginocchio come se fosse un fuscello.

Gridai e cantai con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Mi lasciai cadere sull’erba, ridendo.

Quindi mi rialzai, mi strappai di dosso il mantello e la spada e cominciai a fare le capriole. Capriole come le fanno gli acrobati del teatro di Renaud. E feci salti mortali perfetti. Li ripetei, questa volta all’indietro, e poi di nuovo in avanti, e passai ai doppi e ai tripli salti mortali, e balzai nell’aria in verticale staccandomi di quindici piedi dal suolo, e atterrai sui talloni, un po’ affannato e ansioso di continuare quegli esercizi.

Ma si approssimava il mattino.

Il mutamento nell’aria e nel cielo era molto sottile, ma io lo sapevo come se stessero squillando le campane dell’inferno, le campane che chiamano il vampiro a rincasare per abbandonarsi al sonno della morte. Ah, la bellezza commovente del cielo, l’incanto della visione dei campanili indistinti. E mi venne un pensiero strano, il pensiero che nell’inferno la luce dei fuochi doveva essere fulgida come quella del sole, e sarebbe stata l’unica luce solare che avrei mai veduto.

Ma che cosa ho fatto? pensai. Non l’avevo voluto. Non mi ero arreso. Anche quando Magnus mi aveva detto che stavo morendo, avevo lottato contro di lui. Eppure, adesso sentivo le campane dell’inferno.

Be’, che importanza aveva?

Quando arrivai al camposanto, per galoppare verso casa, qualcosa mi distrasse.

Mi fermai, tenendo la cavalla per le redini, e guardai il piccolo prato pieno di tombe. Non riuscivo a capire esattamente che cosa fosse. Poi lo notai di nuovo, e compresi. Sentii una presenza inequivocabile nel cimitero.

Rimasi così immobile che sentii il sangue rombare nelle mie vene.

Non era umana, quella presenza! Non aveva odore. E non irradiava pensieri umani. Sembrava piuttosto velata e difesa, e sapeva che ero lì. Mi spiava.

Era possibile che immaginassi tutto?

Rimasi lì ad ascoltare e a guardare. Alcune lapidi grigie affioravano dalla neve. E in distanza c’era una fila di vecchie cripte, più grandi e più ornate ma rovinate quanto le pietre tombali.

Sembrava che la presenza indugiasse presso le cripte; e poi la sentii distintamente mentre si avviava verso gli alberi.

«Chi sei?» chiesi. La mia voce era come una lama di coltello. «Rispondimi!» gridai ancora più forte.

Percepii un grande tumulto nella presenza, e fui certo che si allontanava molto rapidamente.

Attraversai correndo il camposanto per inseguirla, e sentii che si allontanava. Tuttavia non vedevo niente nella foresta spoglia. E mi resi conto che io ero più forte, che aveva avuto paura di me!

Be’, immaginate: paura di me.

E io non sapevo se era corporeo, un vampiro come me, o se era privo di fisico.

«Be’, una cosa è sicura», dissi. «Sei un vigliacco!»

Vi fu un fremito nell’aria. Per un istante mi parve che la foresta respirasse.

Fui colpito da un senso della potenza che già da tempo covava in me. Non temevo nulla. Né la chiesa, né il buio, né i vermi che brulicavano sui cadaveri nella mia segreta. Neppure la forza bizzarra che s’era ritirata nella foresta e che sembrava di nuovo vicina. Neppure gli uomini.

Ero un demone straordinario! Se fossi stato seduto sui gradini dell’inferno con i gomiti sulle ginocchia e il diavolo mi avesse detto: «Su, Lestat, scegli la forma demoniaca con la quale vuoi vagare sulla terra», come avrei potuto sceglierne una più adatta della mia? E mi sembrava che la sofferenza fosse un’idea che avevo conosciuto in un’altra esistenza, e che non avrei conosciuto mai più.

Non posso trattenermi dal ridere, oggi, quando penso a quella prima notte e soprattutto a quel momento particolare.

9.

E la sera dopo mi precipitai a Parigi con tutto l’oro che potevo I portare con me. Il sole era appena calato all’orizzonte quando aprii gli occhi; e una limpida luce azzurra emanava ancora dal cielo quando montai a cavallo e partii per la città.

Ero affamato.

Per un colpo di fortuna, fui aggredito da un tagliagole prima che raggiungessi la cinta delle mura. Uscì minaccioso dai boschi, sparando con la pistola, e io vidi la pallottola uscire dalla canna e passarmi accanto mentre balzavo da cavallo e mi avventavo su di lui.

Era robusto, e mi sorprese la gioia che provai nel sentirlo imprecare e lottare. Il servitore malvagio che avevo preso la notte precedente era un vecchio. Questo aveva un corpo giovane e solido. Persino la barba ispida e mal rasata mi tentava, e amavo la forza delle sue mani mentre cercava di colpirmi. Ma non era un passatempo sportivo. Rimase immobile quando gli affondai i denti nell’arteria, e allorché il sangue sgorgò fu una voluttà allo stato puro. Anzi, era così squisita che dimenticai di staccarmi prima che il cuore smettesse di battere.

Eravamo inginocchiati sulla neve e fu una scossa tremenda, la vita che passò in me insieme al sangue. Per un lungo istante non riuscii a muovermi. Uhmmm, ho già infranto le regole, pensai. E adesso dovrei morire? Non sembra che stia per accadere proprio questo. Soltanto un delirio travolgente.

E quel povero diavolo, morto fra le mie braccia, che mi avrebbe sparato in faccia se l’avessi lasciato fare.

Continuai a guardare il cielo che si oscurava, la grande massa d’ombre costellata di luci che era Parigi. E poi vi furono soltanto il calore e una forza crescente.

Tutto bene. Mi rialzai e mi asciugai le labbra. Poi lanciai il cadavere lontano il più possibile sulla neve vergine. Ero più possente che mai.

Per un poco restai lì, goloso e pieno di smania di uccidere perché l’estasi continuasse per sempre. Ma non avrei potuto bere altro sangue; e a poco a poco mi calmai e qualcosa cambiò in me. Fui sopraffatto da un senso di desolazione. E di solitudine, come se il bandito fosse stato un amico o un parente e mi avesse abbandonato. Non capivo: tuttavia l’atto di bere era stato così intimo. Ora avevo addosso il suo odore, e mi piaceva. Ma lui giaceva a diverse iarde di distanza, sulla crosta di neve ghiacciata, le mani e la faccia cinerei sotto il chiaro di luna.