Diavolo, quel figlio di puttana aveva avuto intenzione di uccidermi, no?
Dopo un’ora avevo trovato un efficiente procuratore legale che si chiamava Pierre Roget, nella sua casa al Marais. Era un giovane, e la sua mente mi era del tutto aperta. Avido, intelligente, coscienzioso. Proprio ciò che volevo. Non solo leggevo i suoi pensieri quando parlava, ma credeva a tutto ciò che gli dicevo.
Era ben disposto a rendersi utile al marito di un’ereditiera di San Domingo. E, certo, avrebbe spento tutte le candele, tranne una, dato che mi dolevano gli occhi in conseguenza della febbre tropicale. In quanto al mio patrimonio di gemme, trattava con i gioiellieri più stimati. Conti in banca e lettere di credito per la mia famiglia in Alvernia… sì, immediatamente.
Era più facile che interpretare la parte di Lelio.
Ma concentrarmi mi era difficile. Tutto costituiva una distrazione… la fiamma fumosa della candela sul calamaio di bronzo, le dorature della carta da parati cinese, e la faccetta sorprendente di Monsieur Roget, con gli occhi scintillanti dietro le lenti ottagonali. I denti mi ricordavano i tasti di un clavicembalo.
Gli oggetti normali della stanza sembravano ballare. Un cassettone mi guardava con gli occhi formati dai pomelli di bronzo. E una donna che cantava al piano di sopra, con una voce che dominava il rombo sordo di una stufa, sembrava dire qualcosa in un linguaggio sommesso e segreto, qualcosa come: «Vieni da me».
Ma, a quanto sembrava, sarebbe stato sempre così e dovevo imparare a dominarmi. Quella stessa sera era necessario inviare denaro per corriere a mio padre e ai miei fratelli, e a Nicolas de Lenfent, musicista della Casa di Tespi di Renaud: doveva essere avvertito che quel denaro gli veniva dal suo amico Lestat de Lioncourt. Lestat de Lioncourt desiderava che Nicolas de Lenfent si trasferisse subito in un appartamento decente sull’Ile St.-Louis o in qualche altro posto simile, e naturalmente Roget l’avrebbe assistito; e poi Nicolas de Lenfent doveva studiare il violino. Roget doveva acquistare per lui il miglior violino disponibile, uno Stradivari.
Infine, doveva venire scritta una lettera per mia madre, la marchesa Gabrielle de Lioncourt, in italiano in modo che nessun altro potesse leggerla; e doveva esserle inviata una somma notevole. Se avesse potuto fare un viaggio nell’Italia meridionale dov’era nata, forse sarebbe riuscita ad arrestare il corso della malattia che la consumava.
Mi dava le vertigini, pensare che aveva la possibilità di evadere. E mi domandavo cosa ne avrebbe pensato lei.
Per un lungo momento non sentii nulla di ciò che stava dicendo Roget. Immaginavo mia madre vestita, per una volta nella vita, in modo degno del suo rango, mentre usciva dal castello con la sua carrozza e il tiro a sei. E poi ricordai il suo viso devastato e la tosse, come se l’avessi accanto.
«Mandatele la lettera e il denaro stasera stessa», dissi. «La spesa non ha importanza. Provvedete.» Misi sulla scrivania abbastanza oro per far vivere mia madre tra gli agi per tutta la vita… se avesse avuto una vita da vivere.
«Ora», dissi, «conoscete un mercante che venda arredi di lusso, e quadri e arazzi? Qualcuno che sia disposto ad aprirci i suoi magazzini anche a quest’ora?»
«Certo, Monsieur. Lasciate che prenda il mantello. Andremo immediatamente.»
Pochi minuti dopo eravamo diretti verso il Faubourg St.-Denis.
Poi, per ore, vagai in compagnia dei miei collaboratori mortali in un paradiso di ricchezze materiali, scegliendo tutto ciò che mi piaceva. Divani e poltrone, porcellane e argenteria, tendaggi e statue… tutto a mia disposizione. Con il pensiero, trasformavo il castello dov’ero cresciuto, via via che altri oggetti venivano portati fuori per essere imballati e spediti al Sud. Ai miei nipoti mandai giocattoli che non avevano mai sognato… piccole navi con le vele, e case di bambola incredibilmente perfette.
Imparavo da ognuno degli oggetti che toccavo. E c’erano momenti in cui i colori e la consistenza diventavano troppo splendidi e travolgenti. Piangevo dentro di me.
Avrei continuato impunemente a giocare a far l’essere umano per tutto quel periodo, se non fosse capitato uno sfortunato incidente.
A un certo momento, mentre giravamo per il magazzino, comparve un ratto, sfacciato come i ratti di città, e corse lungo il muro vicinissimo a noi. Lo guardai. Non era niente d’insolito, certo. Ma lì, tra il gesso e i legni preziosi e le stoffe ricamate, il ratto sembrava meravigliosamente particolare. E gli uomini, che avevano frainteso, cominciarono a mormorare parole di scusa e a battere i piedi per farlo fuggire.
Per me, le loro voci divennero un miscuglio di suoni, come uno spezzatino che bolle in pentola. Pensavo che il ratto aveva le zampette minuscole e che non avevo ancora mai esaminato uno dei suoi simili né un altro essere a sangue caldo. Presi il ratto, fin troppo facilmente, e gli guardai le zampe. Volevo vedere che unghie aveva, e com’era la pelle fra le dita. E dimenticai completamente gli uomini.
Fu il loro silenzio improvviso a richiamarmi alla realtà. Mi fissavano sbigottiti.
Sorrisi con tutta l’innocenza di cui ero capace, lasciai andare il ratto e ripresi a scegliere.
Ecco, non fecero commenti. Ma era significativo. Li avevo veramente spaventati.
Più tardi, quella sera, affidai un’ultima commissione al mio procuratore. Doveva mandare in dono cento corone a un proprietario di teatro, Renaud, con un biglietto di ringraziamento per la sua gentilezza.
«Informatevi della situazione di quel piccolo teatro», dissi. «E scoprite se è gravato di debiti.»
Naturalmente, non mi sarei mai avvicinato. Non dovevano intuire cos’era accaduto, non dovevano essere contaminati. E per il momento avevo fatto il possibile per tutti coloro che amavo, no?
E quando tutto fu concluso e le campane delle chiese suonarono le tre sopra i tetti bianchi e io mi sentii abbastanza affamato per fiutare odore di sangue dovunque mi girassi, mi trovai solo nel Boulevard du Temple.
La neve sporca s’era trasformata in pozzanghere sotto le ruote delle carrozze, e io guardavo la Casa di Tespi con i muri impiastricciati e i cartelli strappati, e il nome del giovane attore mortale, Lestat de Valois, ancora scritto a lettere rosse.
10.
Le notti successive mi scatenai. Incominciai a bere Parigi come se la città fosse sangue. Durante la prima sera battei i quartieri peggiori, mi aggirai tra ladri e assassini, e spesso lasciai loro una possibilità di difendersi, quindi li avvinghiavo in un abbraccio fatale e banchettavo avidamente.
Assaporavo diversi tipi di prede: individui grossi e pesanti, piccoli e robusti, irsuti e scuri di carnagione… ma il mio preferito era il giovane briccone pronto a uccidervi per le poche monete che avete in tasca.
Mi piaceva sentirli grugnire e bestemmiare. A volte li tenevo fermi con una mano e ridevo di loro fino a quando s’infuriavano, e lanciavo i loro coltelli sopra i tetti, spaccavo contro i muri le loro pistole. Ma la mia vera forza era come un gatto al quale non era mai permesso di scattare. E la cosa che mi ripugnava in loro era la paura. Se una vittima era davvero spaventata, di solito perdevo interesse.
Con il passare del tempo, imparai a posporre l’uccisione. Bevevo un po’ da uno, e un altro po’ da un altro, e poi assimilavo la grande scossa della morte, dal terzo o dal quarto. Moltiplicavo per mio piacere la caccia e la lotta. E, quando ne avevo avuto abbastanza di caccia e di sangue per una serata — quanto sarebbe stato sufficiente per sei vampiri sani —, volgevo gli occhi verso il resto di Parigi e gli splendidi svaghi che prima non avevo potuto permettermi.